LE RELIGIONI POLITEISTE NELL’ITALIA PREROMANA

 




Celso, ‘Alhqhvs Lovgos [Alethès Lògos], V, 25

“… ciascun popolo coltiva le sue tradizioni, comunque esse siano state stabilite. E questo sembra anche verificarsi non solo perché ogni popolo ha ritenuto di seguire una consuetudine propria ed è necessario conservare i principi vigenti nella comunità, ma anche perché, come è verisimile, le varie parti della terra, fin dal principio assegnate quali all’una quali all’altra potenza tutelare e divise in determinati dominii, continuano ancora ad essere amministrate in questo modo. Inoltre quanto si attua presso i singoli popoli può essere giusto nella misura in cui si attua nel modo che a quelle potenze tutelari piace. Sarebbe invece un’empietà sovvertire le istituzioni originarie dei vari luoghi”

 

Così Celso nell’opera ricostruita a partire dalla critica che ne fa Origene; il concetto di fondo è che ogni popolo ha il diritto-dovere di conservare i costumi, le credenze e le divinità della terra cui appartiene. Benché Celso sia una fonte tarda e poco attendibile, dal momento che la tradizione dell’opera è indiretta, tuttavia l’idea qui espressa doveva essere diffusa ampiamente nel mondo greco-romano. Basti pensare che i Greci descrivevano le religioni altrui nelle opere a carattere geografico (un esempio per tutti, cui Celso stesso fa sovente riferimento, sono le Storie di Erodoto) e che presso i Romani era usanza, durante le guerre, invitare le divinità della città o del popolo nemico ad abbandonarli e a trasferirsi a Roma, dove veniva loro promesso un tempio.

Dopo la lunga interruzione dovuta al cristianesimo, oggi in Europa si assiste alla rinascita delle cosiddette religioni “etniche” o, per usare un termine del quale ci si va riappropriando, pagane. Non c’è in Europa la ricerca spasmodica delle radici cui assistiamo in America, talvolta accompagnata, soprattutto per quanto riguarda alcune correnti wiccan, dal rammarico per non appartenere alla nazione “giusta”.  Però spesso si sceglie il sentiero pagano da percorrere in base ad una scelta, ad un sentimento di appartenenza che proviene dalla sensibilità individuale e che può non avere legame effettivo con il territorio d’origine della persona.

Ciò è tanto più vero in Italia, dove le etnie sia native che migranti, prima e dopo l’avvento del cristianesimo, hanno continuato a mescolarsi e a lasciare ciascuna il proprio segno sul territorio; così, prima e dopo la conquista dei Romani, le religioni dei popoli antichi hanno convissuto in uno stesso territorio. Così un italiano può avere radici celtiche, germaniche, italiche, pre-latine, latine, romane, greche, senza identificarsi pienamente in nessuna di questi gruppi: ecco quindi il senso personale di appartenenza che spinge i pagani italiani talvolta, ed è spesso il caso di chi ritrova le proprie radici romane, a sentirsi in toto discendenti di una sola stirpe, talvolta a sentirsi parte, a praticare o anche solo ad interessarsi a più religioni antiche, tutte definibili a buon diritto tradizionali. Molte di queste tradizioni sono probabilmente ancora sepolte nella sabbia del tempo, per altre invece si assiste ad una “ripresa” in chiave wiccan: è il caso di una corrente veneta che pone al centro delle proprie pratiche la dea degli antichi veneti Reitia.

Non entrerò qui nei meriti della scelta; quello che invece desidero presentare è una sorta di mappa geografica delle religioni politeiste che hanno attraversato l’Italia nei secoli che precedono il cristianesimo, mostrando quindi la sovrapposizione di queste e la loro stratificazione sul territorio, che diviene stratificazione nelle radici stesse delle persone. Non tratterò però, per necessità di brevità, le religioni più sviluppate e in fondo più note, che pure hanno influito moltissimo sul paganesimo italico: vale a dire la religione Greca, giunta con le colonie della Magna Grecia nell’VIII secolo a.e.v., la religione Etrusca, la religione Celta, la religione Fenicia e quella Romana, che si sviluppò unendo elementi italici, etruschi e in un secondo tempo greci. In realtà in Italia non mancarono esponenti del ceppo germanico: i Cimbri, che finirono per stanziarsi nelle Alpi e in parte dell’Italia Settentrionale. La complessità di tali sistemi e la quantità di informazioni che ci sono giunte a riguardo, almeno in rapporto alla scarsità di quelle relative alle altre religioni pagane dell’Italia antica, rendono impossibile la loro trattazione in questa sede, il cui scopo è semplicemente quello di dare una rapida panoramica della situazione religiosa dell’Italia dall’inizio a Roma. Tutte queste meriterebbero un ulteriore approfondimento (cui mi dedicherò prossimamente), e uno studio delle relazioni intercorrenti tra di loro, che qui ho soltanto accennato.

La penisola italiana è abitata fin dall’epoca paleolitica; i più antichi reperti archeologici risalgono a circa 850000 anni fa. Già dal paleolitico si distinguono tre culture, tutte dotate di tombe con ricchi corredi funebri. Questi tre gruppi si frammentarono ulteriormente durante il mesolitico, periodo cui risalgono le cosiddette Veneri, figure scolpite o lavorate con caratteri spiccatamente femminili. Con il neolitico giunsero dall’oriente via mare o dal bacino danubiano alcune nuove popolazioni, che portarono notevoli innovazioni, come la ceramica e l’agricoltura. Queste popolazioni possedevano conoscenze mediche tanto approfondite da poter praticare la trapanazione del cranio a scopo terapeutico, con sopravvivenza del paziente. In un secondo momento arrivarono anche i metalli.

Durante l’Eneolitico i gruppi culturali si stabilizzano e si diffondono: è in questo periodo che si sviluppa nell’area dell’attuale regione Emilia la civiltà detta “terramare”, caratterizzata da villaggi su palafitte, i cui manufatti erano diffusi in tutta l’Italia centro-meridionale. Sempre durante il periodo neolitico cominciò la diffusione delle lingue indoeuropee a partire da est, in ondate successive.

Si formano così le prime popolazioni indigene dell’Europa protostorica, alle quali si sovrapporranno le culture delle popolazioni migranti. In questo articolo, dato il suo carattere di sintesi, non mi soffermerò a lungo sulle peculiarità archeologiche o sociali delle singole civiltà, ma cercherò di concentrarmi, per quanto possibile e anche qualora la trattazione dovesse ridursi ad un mero elenco di nomi di divinità, sull’aspetto religioso. E’ fondamentale però tenere presente che nelle culture “pagane” antiche non esisteva la separazione di sacro e profano così come nelle religioni monoteiste, perché qualsiasi atto aveva in sé una parte che oggi definiremmo sacra e una che chiameremmo profana.

Le fonti antiche ci tramandano una serie di nomi di popoli antichi, precedenti ai latini e agli osco-umbri, ma a questi nomi non corrisponde una definizione precisa, né un numero sufficientemente consistente di reperti archeologici per identificarli: appartengono a questo gruppo gli Ausoni, antichi abitanti del Sannio, il cui nome è attestato anche in Virgilio. Sembra però che si tratti di un termine generico per indicare le popolazioni non greche dell’area: se effettivamente furono una popolazione, erano già scomparsi nel V secolo a.e.v. Lo stesso vale per gli Enotri, gli antichi abitanti dell’Italia Meridionale e precedenti all’arrivo delle popolazioni sabelliche. Degli Enotri c’è qualche traccia nei dialetti e qualche tomba a inumazione, oltre ai tre nomi di tribù (Coni, Morgeti e Vitali) tramandati da Catone.

Precedenti agli italici indoeuropei sono anche alcune popolazioni la cui origine non ci è ben chiara, ma che probabilmente non sono indoeuropee: i Sardi, che diedero vita alla civiltà nuragica, i Sicani, abitanti dell’isola che anche in Omero è detta da loro Sicania, la Sicilia, e i loro vicini Elimi, nel Veneto odierno i Reti e gli Euganei, la civiltà villanoviana, in realtà primi insediamenti degli Etruschi, e soprattutto i Liguri.

La religione della civiltà nuragica che si sviluppò in Sardegna era di tipo cosiddetto naturalistico, che vedeva cioè negli elementi della natura uno spirito divino. I santuari, costruiti tra il 1300 e il 900 a.e.v., erano adibiti, come molti santuari anche di altre culture antiche, oltre che a luogo di culto anche a luogo di mercato e di assemblee politiche; il loro centro era il tempio a pozzo, composto da un vano di ingresso al livello del suolo, una scala che scende nel terreno e il vano interrato con la volta a falsa cupola e la fonte sacra ai piedi della scala. In superficie, l’area sacra era delimitata da un recinto di pietre. Di questi templi dedicati alle divinità delle acque, risorsa preziosa in una regione arida come la Sardegna, ne sopravvivono una quarantina, in genere affiancati da chiese campestri. I Sardi della civiltà nuragica proseguirono il culto dei loro antenati, venerando una Dea Madre e un Dio Toro, divinità della fecondità, le due forze che unendosi generano la vita, il cui culto era però legato in qualche modo al culto dei morti. Le tombe per loro allestite erano collettive e gigantesche, con una facciata semicircolare a forma di corna taurine e una stele con una porticina d’accesso. Tutt’attorno a queste tombe, dette “tombe dei giganti” per le loro impressionanti dimensioni, venivano disposti dei sedili in pietra su cui i parenti dei defunti potevano dormire, forse per comunicare attraverso i sogni con i loro cari, con la pratica dell’incubazione. Di fronte alle tombe sorgevano i “betili”, parola sarda con cui si indicano dei piccoli menhir, simboli fallici di fertilità che recano incisi due occhi o due seni: i betili con gli occhi rappresentano divinità a guardia dei defunti, quelli con i seni l’unione della divinità maschile e di quella femminile per riaccendere la vita. I Sardi avevano altri tipi di tempio, quello in grotta con una stalagmite per altare e un focolare sacrificale e quello a pianta rettangolare. Anche di questi, come per gli altri, ci rimangono degli esempi, ma non si sa a che divinità fossero dedicati; per i tempi a grotta si ipotizza una divinità del sottosuolo. In un secondo momento i Sardi subirono l’influenza di Greci e Cartaginesi; in epoca romana era noto col nome latino di Sardus Pater (padre Sardo) un antico dio locale, probabilmente derivato dal o assimilato al dio cartaginese Baal. I mitografi antichi ritenevano Sardus Pater figlio di Ercole venuto dalla Libia (quindi di Ercole Melqart, interpretazione greco-romana del dio fenicio Melqart).

L’altra grande isola italiana è detta da Omero Sicania, dal nome dei suoi abitanti i Sicani, poi sospinti nella parte occidentale dell’attuale Sicilia dall’arrivo dei Siculi. Tucidide afferma che i Sicani abitavano l’isola già ai tempi di Troia ma vi sarebbero giunti dall’Iberia attraverso tutta l’Italia, mentre secondo Antioco e Timeo sono originari dell’isola. Si sa molto poco di loro, perché sotto l’influsso greco e fenicio avrebbero perso la propria caratterizzazione etnica nel IV secolo a.e.v. La stessa sorte seguirono gli Elimi, che gli autori antichi ritenevano originari dell’Italia meridionale da dove gli Enotri li avrebbero cacciati (Ellanico), oppure un gruppo di origine asiatica formato da profughi troiani e altre genti (Tucidide), subirono un rapido processo di ellenizzazione e poi scomparvero sotto il dominio cartaginese nel I sec a.e.v. Secondo gli studiosi moderni, potrebbero essere un gruppo di Sicani separatisi dalla comunità di origine o addirittura liguri o semiti: in quest’ultimo caso sarebbero una popolazione mista persiana, fenicia e troiana, il cui nome deriverebbe dalla regione di Elam. La loro divinità principale era femminile e faceva parte del gruppo delle Dee Madri (con questo nome gli studiosi indicano tutte le dee delle antiche culture aventi attributi materni e legate alla fecondità): il suo santuario principale sorgeva sul monte Erice e la dea fu chiamata Afrodite dai greci e poi Venere dai romani. La Venere Ericina ha come simbolo una spiga ed è rappresentata accanto ad un cane e ad altri animali (è una potnia theron, una “signora degli animali”); i suoi riti erano celebrati all’aperto affinché la rugiada cancellasse poi i segni dei sacrifici. Il culto fu accolto da Roma, ma i magistrati lo limitarono perché contrario al senso del pudore dei romani: la festa di Venere Ericina cadeva il 23 aprile, contemporaneamente alle Vinalia, e il culto era riservato a diciassette città siciliane, probabilmente tutte elime, che avevano il privilegio di offrire una corona alla dea e alle prostitute (in questo alcuni studiosi hanno voluto vedere un retaggio della prostituzione sacra che si sarebbe svolta attorno al tempio originario), mentre era proibito alle matrone. La città principale degli Elimi era Segesta: il nome era lo stesso di una divinità agricola romana, che recava come simbolo una spiga, esattamente come la Venere Ericina, ma il rapporto tra le divinità non è chiaro.

Nell’odierno Veneto, prima dell’arrivo della civiltà cosiddetta paleoveneta, abitavano due popolazioni non indoeuropee, che hanno lasciato traccia in toponimi delle montagne del luogo: le Alpi Retiche prendono il nome dalla popolazione dei Reti, i colli Euganei da quella degli Euganei. Di nessuna delle due si sa molto: si pensa che i Reti potessero essere in realtà un insieme di popolazioni comprendente anche indoeuropei dall’Illiria (da dove vennero poi i paleoveneti) e Celti; gli Euganei potrebbero far parte del gruppo dei Liguri e si dividerebbero in Stoni, Camuni (autori delle incisioni della Val Camonica) e Triumpilini (autori delle incisioni della Val Trompia). Entrambi si mescolarono con Celti, Etruschi e in seguito Veneti.

Al contrario, conosciamo invece molto della religione etrusca, che influenzò quella romana al pari di quella greca (a lungo si ritenne che gli Etruschi fossero stati mediatori culturali tra greci e romani, ma in seguito furono provati contatti diretti tra le due culture), così come gli Etruschi entrarono a far parte della società romana: è superfluo dire che tre dei leggendari sette re di Roma furono Etruschi. La lingua etrusca non sembra appartenere al ceppo indoeuropeo, mentre l’alfabeto è di origine greca: a loro volta gli Etruschi lo trasmisero a diverse popolazioni dell’Italia Settentrionale, ma pare non ai Latini, che lo appresero probabilmente direttamente dai greci. Sull’origine degli Etruschi sono state fatte molte ipotesi: l’ipotesi autoctona è stata abbandonata dopo la scoperta delle iscrizioni dell’isola di Lemno, lasciate da un popolo di lingua non greca, molto simile all’etrusco, perciò si ritiene che gli Etruschi potrebbero essere i discendenti degli abitanti dell’isola di Lemno emigrati in Italia e fusisi con le popolazioni locali. Da questa fusione sarebbe nata la civiltà villanoviana, primo embrione della civiltà etrusca; attualmente però nessuna delle ipotesi formulate sull’origine degli Etruschi è provabile con una certa sicurezza. Anche dopo il declino di questo popolo, la lingua etrusca rimase in uso a Roma fino all’età augustea, come lingua sacra e dei libri divinatori, che raccoglievano le pratiche cultuali, divinatorie e le norme della vita civile che i romani chiamavano disciplina etrusca. La divinazione è l’aspetto più noto della loro religione, furono loro ad insegnare ai romani l’aruspicina, la divinazione attraverso l’osservazione delle viscere delle vittime sacrificali, del volo degli uccelli e dei fulmini. Il fulmine godeva di particolare venerazione ed era attributo di molte divinità, che ne potevano scagliare uno solo, e di Tinia, poi identificato con Giove, divinità celeste, che invece ne aveva a disposizione tre: uno per avvertire, uno per atterrire e il terzo per distruggere. Contrariamente a quanto accade per altre popolazioni italiche, abbiamo i nomi di molte divinità etrusche (in lingua originale o attraverso l’interpretatio italico-romana) e sappiamo com’era organizzato il sacerdozio. Secondo quanto tramandatoci dai Romani, le divinità Etrusche erano organizzate gerarchicamente e al vertice c’era una triade celeste composta da Tinia, Uni e Menvra, più o meno corrispondenti ai romani Giove, Giunone e Minerva; a questa corrispondeva una triade ctonia composta da Mantus, un dio che riuniva caratteristiche dei greci Ade e Bacco, Mania e una terza dea, Phersipnei (Persefone) o Serfue (Cerere). Tra le divinità possiamo distinguere quelle di origine etrusca (Amharia, dea della giustizia e della vendetta, Cautha, divinità solare, Cilens, Colalp, Ethausva, Letham, Tecum, Thufltha, Tolusco e il latinizzato Vertumnus o Volturnus), quelle di origine greca o comunque a noi note già ellenizzate (Fufluns-Dioniso, Sethlans-Efesto, Turms-Hermes, Turan-Afrodite, Aplu-Apollo, Artume-Artemide, Hercle-Eracle, Aita-Ade, Phersipnei-Persefone), quelle di provenienza italica (Maris-Marte, Nethuns-Nettuno, Menvra-Minerva, Usil-Sole) e quelle latine o latinizzate Uni-Giunone, Ani-Giano, Selvans-Silvano, Satre-Saturno, Vetis-Veiove. Presso la città etrusca di Capena sorgeva il Lucus Feroniae, il bosco sacro della dea Feronia, divinità di origine sabina. Il sacerdozio aveva anche il compito di compilare il calendario su base lunare; a capo del sacerdozio un sommo sacerdote eletto ogni anno durante la festa federale del Fanum Voltumnae. La religione degli Etruschi è oggetto di numerosi studi, perciò non mi dilungo qui su di essa, così come non tratterò le religioni dei greci, dei romani, dei celti e dei fenici, fondamentali per il paganesimo italiano, ma per le quali rimando a studi più approfonditi, dal momento che ve ne sono anche di meritevoli.

I Liguri erano ritenuti già da alcuni scrittori antichi il popolo più antico d’Italia; sicuramente era uno dei maggiori e occupava la maggior parte della regione alpina occidentale prima dell’espansione celtica del V-IV secolo a.e.v. Dopo l’arrivo dei Celti, i Liguri si mescolarono con i nuovi venuti al punto tale da essere definiti celto-liguri. La lingua originale, precedente alla forte impronta indoeuropea datale dai Celti, doveva essere simile al retico, perciò neppure i Liguri sono di origine indoeuropea. Come i Celti, i Liguri erano divisi in più popolazioni; tra i nomi degli abitanti dell’Italia Settentrionale distinguiamo talvolta a stento i Liguri dai Celti, tanto profonda fu la fusione: appartengono al gruppo dei Liguri gli Apuani, deportati dai Romani dalla Valle della Magra nel Sannio, i Bagienni, i Friniati, stanziati tra Lucca e Modena, gli Ingauni, che sottomisero i liguri Intimili e Sabati, i Leponzi, la cui appartenenza ai Liguri è ipotizzata sulla base della toponomastica, del dialetto mediterraneo preindoeuropeo e dell’usanza dell’inumazione, i Levi, stanziati attorno all’odierna Pavia, legati agli Anamari e poi caduti sotto il dominio degli Insubri, i Salassi, che commerciavano con le genti d’oltralpe e in particolare con i Salluvi, di cui potrebbero essere una diramazione, attraverso il valico del Gran San Bernardo, sacro al dio Poeninus; mentre Anamari o Marici, stanziati intorno a Piacenza, Galli (Senoni, Boi, Cenomani e Sequani, che si insediarono nella pianura padana), Insubri, stanziati nell’attuale Lombardia, Taurini, le cui origini celtiche sono dedotte dalla toponomastica e Taurisci, il cui nome, come quello dei Taurini, deriva forse dalla radice celtica taur- che significa “monte”, sarebbero Celti. Incerta l’origine degli Orobi, già i latini non sapevano se fossero liguri o celti; la fusione è particolarmente accentuata tra gli Anamari, i Bagienni, i Taurini e i Taurisci. Anche la loro religione è a tratti indistinguibile dagli elementi di matrice celtica: la loro doveva essere una religione di tipo naturalistico, con particolare venerazione per foreste, boschi, vette e fiumi, tutti luoghi di culto talvolta segnalati da un simulacro, una pietra o un altare, ma i nomi di divinità che ci pervengono sono di origine celtica e si tratta probabilmente di un fenomeno di interpretatio, come facevano anche i romani nei confronti delle divinità straniere. Così una divinità guaritrice prende il nome di Bormanus, mentre Poeninus, divinità delle montagne, fu interpretato come Giove dai Romani. Il dio Bekkos, da cui il monte Bego ricco di incisioni rupestri liguri prende il nome, era rappresentato in forma metà umana e metà di toro: le corna o il corpo per metà animale sono attributo di molte figure delle stesse incisioni. Dai Celti mutuarono il culto del dio Belenos, che era venerato fino alle coste dell’Adriatico, a Venezia e a Rimini. Come molte popolazioni abitanti dell’Italia, i Liguri praticavano il culto di Ercole. In fiumi, laghi, paludi e torrenti venivano gettati oggetti personali come armi e gioielli, ma non è chiaro se ciò venisse fatto come offerta alle divinità o per impedire l’uso di oggetti personali di un defunto. L’inumazione era la pratica principale fino all’età del bronzo, poi viene affiancata dall’incinerazione.

Per Italici si intendono quelle popolazioni indoeuropee che costituirono i primi insediamenti di questo tipo in Italia. Si dividono nei due gruppi del latino-siculi e degli osco-umbri (o umbro-sabelliche o sannitiche). Presso entrambi i gruppi i vincoli tra le popolazioni assumevano carattere religioso e le leghe di città indipendenti avevano sede sempre in un santuario. Veneravano animali totemici e la maggior parte delle loro divinità era legata al ciclo biologico e all’agricoltura. Presso entrambi i gruppi, anche se con maggior frequenza presso gli osco-umbri, era diffusa la pratica del ver sacrum (primavera sacra): in caso di necessità, vale a dire di carestia o guerra, tutti i frutti dei campi, gli animali e i bambini (in certi casi solo i maschi) nati in quella primavera (tra il primo di marzo e il 30 aprile circa) erano consacrati agli dei, in particolare a Marte, e, mentre animali e prodotti agricoli erano offerti in sacrificio, i ragazzi, compiuti vent’anni, abbandonavano la comunità di origine per fondare una nuova città nel luogo in cui li avrebbe guidati un animale totemico o una divinità, da cui le nuove comunità prendevano il nome. Alcune divinità inoltre possono essere dette italiche, perché presenti in entrambi i gruppi: ne sono un esempio Giove, presente sia presso i Latini (santuario di Iuppiter Latiaris) sia presso gli Umbri e i Sanniti, essendo citato nelle tavole eugubine e in quelle di Agnone, il cui nome deriva dalla radice indoeuropea che indica la luce del giorno; una divinità dei frutti che è maschile presso gli osco-umbri e femminile presso i Romani, Pomono-Pomona; Marte o Mamerte o Mamurio, dio della guerra, ma anche dell’agricoltura e guida nella fondazione di nuove comunità, al centro della cerimonia del ver sacrum, che appunto avveniva in momenti di difficoltà sul fronte dell’agricoltura o della difesa.

Il gruppo più antico è quello dei latino-siculi: l’archeologia considera affini le culture stanziatesi nel basso Tevere e nell’Etruria meridionale, quelle dei Latini e dei Falisci, e quelle dei Siculi, che in Sicilia si sovrapposero agli Elimi e ai Sicani.

I Latini erano organizzati in origine in una lega di città indipendenti, che aveva il suo centro nel tempio di Diana presso Aricia, nel bosco sacro di Nemi, custodito dal Rex Nemorensis, un sacerdote che veniva ucciso da chi volesse succedergli nell’incarico, in genere uno schiavo fuggitivo, che strappava un ramo dal bosco per dichiarare il diritto di battersi con il sacerdote. La comunanza di lingua e di pratiche religiose portava le città dei Latini a stringere federazioni religiose più che politiche, i cui membri si riunivano in occasione di alcune feste per compiere sacrifici presso i santuari. Centro cultuale principale era il santuario di Giove Laziale (Iuppiter Latiaris), sul monte Cavo, tra i Colli Albani; qui, nella festa annuale delle Feriae Latinae si sacrificava un toro bianco, le cui carni erano distribuite ai rappresentanti delle città che partecipavano alla lega. Nell’area sacra a Iuppiter Latiaris si trovava anche una fonte sacra alla ninfa Ferentina, dea che doveva avere anche un bosco sacro, non meglio identificato. Lavinium, centro latino legato alla leggenda di Enea, era invece sede di un santuario dedicato agli dei Penati, divinità della casa e del focolare domestico, cui si offrivano sale e farro. Altro centro importante, che secondo Festo era in relazione con gli Etruschi, ma nel quale non si è trovata traccia di cultura etrusca, quanto piuttosto di cultura greca, era Tusculum, sede di un tempio a Giove, dio principale dei Latini, del quale sono stati scoperti due simulacri, e di uno ai Dioscuri, poi distrutto nel Medioevo. Lanuvium era invece sede del culto di Giunone Sospita, soccorritrice, dalle caratteristiche spiccatamente guerriere.

I Falisci fanno parte dello stesso ramo indoeuropeo dei Latini, avendo una lingua molto simile, ma dovettero avere anche rapporti molto stretti con gli Etruschi, se alcuni autori antichi li assimilavano a questi ultimi. La loro città principale, Falerii Veteres, aveva come divinità principale Minerva, trasferita a Roma sull’Aventino dopo la fine della terza guerra sannitica, quando la città venne distrutta dai Romani, o, secondo alcuni storici più recenti, abbandonata dai Falisci stessi che avrebbero trovato conveniente trasferirsi vicino ai nuovi alleati romani nella città di Falerii Novi, lungo una strada romana. Di Falerii Novi rimane una porta cosiddetta di Giove e altre iscrizioni attestano il culto di Mercurio, Cerere e Libero. Protettrice della città era Giunone Curite, con aspetti guerrieri molto accentuati; sulla cima del monte Soratte sorgeva invece un tempio di Apollo, oggi soppiantato da una chiesa cristiana.

Gli studiosi ritengono che i Siculi si sarebbero stabiliti dapprima nel Bruzio, poi in Sabina e quindi in Campania, prima di attraversare lo stretto di Messina e stanziarsi definitivamente in Sicilia orientale, attorno all’XI secolo a.e.v.. Come Sicani ed Elimi, finirono per essere assorbiti dalla colonizzazione greca. Assorbirono anche dei tratti della religione greca: a loro si attribuisce il culto dei Palici, due dei gemelli, protettori della navigazione e dell’agricoltura che conosciamo attraverso la leggenda greca. Il loro nome stesso deriva dal greco e significa “nati due volte”, perché, figli di Zeus e della ninfa Talia, sarebbero nati una prima volta dalla madre e una seconda dalla terra, che per ordine di Era aveva ingoiato Talia. Con Zeus i Greci “tradussero”, attraverso l’istituzione dell’interpretatio, il dio siculo Adrano, noto appunto come padre dei Palici.

In un secondo tempo giunsero in Italia le popolazioni del gruppo osco-umbro: Umbri, che occupavano il bacino superiore del Tevere, i Sanniti, delle montagne dell’Abruzzo, divisi in Carencini, Pentri e Caudini, gli Irpini, gli Equi, i Frentani, i Volsci. Legati al ceppo dei Sanniti sarebbero i Lucani, i Bruzi, i Marrucini, i Marsi, i Vestini e gli Osci, che i Romani riunivano sotto il nome di Sabelli assieme agli Apuli, abitanti della Puglia prima dell’insediamento delle popolazioni illiriche, anche questi di origine osco-umbra, ma non meglio identificati e ai Sabini, che secondo altri sarebbero nati dagli Umbri tramite la pratica di migrazione detta ver sacrum, l’esodo rituale di gruppi di giovani inviati alla ricerca di nuove sedi. A loro volta legati ai Sabini, come si deduce dal dialetto, i Peligni, che un tempo erano ritenuti invece provenienti dall’Illiria. I gruppi così nati prendevano il nome da un animale sacro (Piceni, Irpini, Lucani, Frentani) o dalla divinità protettrice (Marsi e Vestini). Presentano alcune divinità in comune: Flusa era dea della terra o della vegetazione a seconda del pantheon a cui si guarda, da cui probabilmente Flora, entrata anche nel pantheon romano e Saku o Sancus, divinità dei patti degli Umbri e, secondo Catone, divinità principale dei Sabini, che deriverebbero (ma l’ipotesi sembra infondata) il loro nome dal figlio di questo dio, Sabo; Sancus divenne a Roma Semo Sanco, divinità che vigila sui trattati e in seguito identificato con Dius Fidius, poi Iuppiter Sancius, Giove che vigila sulla parola data. L’osco fu per un certo periodo più parlato del latino e differisce dall’umbro più o meno come lo spagnolo dall’italiano, soprattutto dopo che quest’ultima lingua partecipò ad una specie di rinnovamento culturale non meglio noto, in comune con il latino, mentre l’osco rimase più conservativo.

La fonte principale per quanto riguarda la religione degli Umbri sono le tavole eugubine, così dette perché trovate nei pressi di Gubbio, che riportano i testi in antico umbro di alcuni riti che venivano compiuti nella città. Uno di questi riti sopravvive ancora nella sua forma cristianizzata: in origine era un rito di purificazione in cui le vittime sacrificali, tre animali diversi in onore di tre divinità diverse, venivano asperse con l’acqua e portate di corsa attorno alla città per tre volte, oggi lo stesso percorso è compiuto da tre ceri sacri da 275 chili l’uno, che prima di essere portati a spalle compiendo le stesse soste, sono aspersi con dell’acqua e dedicati ognuno ad un santo differente. La caratteristica principale della religione degli Umbri è che essi divinizzavano nomi, concetti, azioni, oggetti, in base alla loro filosofia che vedeva una sostanza divina propria nei concetti astratti: così Fisovio Sancio è la divinità che protegge la rocca di Gubbio, perché è la sostanza divina del rito stesso che si va a compiere. Sulle tavole poi troviamo un elenco di vittime sacrificali, che vengono abbinate alla divinità più appropriata e compaiono anche offerte vegetali, ogni tre animali sacrificali, segnando una divisione delle divinità in triadi, probabilmente mutuata dalla cultura etrusca. A Giove Padre, divinità più volte richiamata nelle tavole, era offerto un bove di più di un anno, a Spettore una vittima sacrificale che avesse più di un anno, al Giovio (forse un figlio non meglio noto di Giove, forse fa parte del culto di Ercole così diffuso in Italia) un agnellino maschio, a Dicamno Giovio lo strutto suino, ad Atto Giovio una pecora di più di un anno, ad Atto Marzio un verro della stessa età. Dopo il sacrificio agli dei evocatori, il rito continuava con la divinazione attraverso il volo degli uccelli. Non si sa se gli Umbri appresero dagli Etruschi questa pratica o se gli Etruschi la assunsero dagli Umbri; doveva però essere molto praticata, se, ancor oggi, i cognomi che richiamano nomi di uccelli sono a Gubbio diffusissimi. Il sacerdote fa un patto con la divinità, che assicuri che il comportamento degli uccelli sia manifestazione del potere divino, quindi l’augure procedeva alla lettura del volo degli uccelli. Il grande rito, che era legato alla purificazione e alla protezione della città e del suo esercito, si chiudeva con il sacrificio di tre vitelli a Marte Hodio e tre manzi a Hondo Cerfio. Le carni di questi animali venivano consumate in silenzio, accompagnate da un pane a treccia. La musica doveva rivestire una certa importanza nella religione umbra, se le tavole riportano anche le istruzioni per la costruzione di uno strumento musicale, con i necessari sacrifici a Giove Padre e a Pomono Popdico, un dio chiamato anche Poemune, contraltare della romana Pomona, dea dei frutti. Da altre iscrizioni ricaviamo il nome di un’altra divinità, la dea Cubra, che i Romani poi identificarono con Bonadea.

Con la variante fonetica Cupra, la stessa dea era venerata dai Piceni come una dea madre della fertilità e ne era la massima divinità. Alla dea, il cui tempio si trovava sulla sponda sinistra della foce del Tesino, sono ancora oggi intitolati due paesi (Cupra marittima e Cupra montana) e sono stati ritrovati dei simulacri. Secondo le fonti antiche come Strabone o Plinio il Vecchio, i Piceni sarebbero derivati da un ver sacrum dei Sabini e si sarebbero stabiliti nelle Marche seguendo un picchio (in latino picus), animale sacro a Marte, da cui il gruppo avrebbe preso il nome. Pare che questo gruppo osco-umbro si insediasse disperdendosi per famiglie e tribù e mescolandosi con altri abitanti della zona, una popolazione pre-indoeuropea di cui sappiamo poco altro: per questo alcuni archeologi preferiscono chiamare Picenti gli osco-umbri e Piceni i gruppi precedenti. La civiltà picena non ebbe mai caratteri di unitarietà e, anche se gli insediamenti si riunirono in confederazioni, variava di località in località. Ebbero però rapporti commerciali con altre popolazioni dell’Adriatico: Etruschi adriatici, Illiri, Dauni e Liburni, una popolazione illirica che secondo alcuni studiosi si sarebbe in parte insediata negli stessi territori.

A Sud rispetto a Umbri e Piceni, sull’Appennino Centrale, si insediarono i Sabini, di lingua osca e affini ai Sanniti. Costituirono una delle più antiche razze d’Italia e si fusero presto con i Romani, cui trasmisero la fierezza che ritroviamo anche nei Sanniti e l’attaccamento ai costumi frugali e ai valori agresti che si ritrova negli scritti degli autori più arcaici, tra cui Catone, il quale riporta anche la congettura, priva però di seria base, che il loro nome derivi da Sabo, figlio di Sancus, la loro divinità principale, variante fonetica dell’umbro Saku. Le religioni umbra e sabina hanno punti in comune, al di là di questo dio: anche i Sabini veneravano il corrispondente maschile della dea romana Pomona, noto col nome di Poimuni. Ardoina era invece il nome di una dea che venne assimilata alla latina Diana, Curi alla latina Giunone.

Allo stesso gruppo dei Sabini appartengono i Vestini, che si stanziarono nella valle dell’Aterno e sulla costa adriatica dell’odierno Abruzzo. Famosi soprattutto per la statua del guerriero di Capestrano, il loro nome potrebbe derivare da quello della dea Vesta, poi passata nel pantheon romano come divinità del focolare domestico e della conservazione della vita. Lungo lo stesso fiume erano stanziati i Marrucini, un’altra popolazione osco-umbra forse derivata da un ramo dei Marsi spostatosi verso nord e il cui nome potrebbe derivare da quello del dio Marte, come quello dei Marsi.

Quasi niente, se non ciò che si deduce dalla loro appartenenza al gruppo degli osco-umbri, sappiamo della religione degli Equi, degli Ernici, che furono cittadini romani già dal III secolo a.e.v. Dei Marsi possiamo ipotizzare a partire dal loro nome una particolare venerazione per il dio Marte, o forse, come sostengono le fonti antiche, la loro nascita da un ver sacrum. In origine erano stanziati nella Sabina, poi si spostarono sotto la pressione degli Umbri nella regione che da loro prende il nome, la Marsica. I Romani tramandano che i Marsi erano incantatori di serpenti o immuni al morso di questi, perciò si può ipotizzare il ruolo religioso o totemico che l’animale svolgeva presso questa popolazione e che possiamo immaginare legato alla guarigione se osserviamo l’abitudine, da parte dei cristiani della stessa regione, di ricoprire la statua di s. domenico abate, il giorno della sua festa, di serpenti, che i fedeli toccano e si avvolgono al collo per ottenere la salute. Conoscenza delle erbe medicinali e capacità di incantare i serpenti erano caratteristiche della loro dea Angizia.

Assieme a Marsi, Marrucini e Vestini, i Peligni, stanziati nel Sannio, nell’Appennino abruzzese, formarono la lega marsica; un tempo erano ritenuti di origine illirica, ma la loro lingua è di tipo osco-umbro. Non sappiamo molto sulla loro civiltà, perché una volta sconfitti nella guerra sociale si romanizzarono rapidamente. Lo stesso accadde ai Frentani, che abitavano i bacini dei fiumi Fortore, Tiferno e Sangro, sulla costa adriatica degli odierni Abruzzo e Molise. Il loro nome deriverebbe dalla parola che significa “cervo”, l’animale sacro che li avrebbe guidati nel presunto ver sacrum da cui avrebbero avuto origine.

Dei Volsci, stanziatisi nell’alta valle del Liri, nel Lazio Meridionale, rimangono le città di Antium, protetta da una dea che in epoca romana divenne Fortuna Anziate, ma aveva competenze ampie: era una dea della fecondità, della nascita, della guarigione, in particolare degli organi di riproduzione, ma aveva anche funzione marinara oltre che agraria; Anxur, in cui già nel IV secolo a.e.v. sorgeva un tempio a Iuppiter Anxurus o Giove fanciullo, sul quale venne costruito un altro tempio all’epoca di Silla. Anche Cassino è una città volsca, nella quale rimangono tracce di un culto di una divinità delle acque in seguito assimilata ad Apollo.

Ma i più noti tra gli osco-umbri sono certamente i Sanniti, per la loro fierezza e per come si opposero ai Romani: qualità che sono messe in luce nei libri di storia, dimenticando il ruolo fondamentale che ebbero nello sviluppo della cultura romana. Sono di origine sannita infatti le farse atellane, spettacoli di comicità “volgare” che vennero ripresi dai romani nei primi tentativi di produzione letteraria. A lungo furono ritenuti popolazione scarsamente urbana: in realtà, se i Sanniti delle montagne rimasero chiusi e conservatori, quelli delle pianure si aprirono all’influenza di altre popolazioni, Greci compresi, e rifondarono alcune città: Pompei, già etrusca, fu ricostruita dai Sanniti come prova un tempio dedicato alla dea Mefitis, dea della fertilità, legata alle acque soprattutto sulfuree, particolarmente venerata dai Sanniti; presso Capena, nel Lazio Meridionale, sorgeva l’area sacra del Lucus Feroniae, il bosco dedicato alla dea Feronia, divinità delle fonti e dei boschi, il cui culto era diffuso in Italia centrale: quest’area rimase sacra e fu ampliata in epoca romana. Come otteniamo informazioni sulla religione umbra dalle tavole eugubine, così per la religione sannita abbiamo la tavola di Agnone, che regola il culto praticato all’interno del recinto sacro di Agnone, dedicato principalmente a Cerere (Kerres) e in subordine a sedici altre divinità elencate nella tavola, spesso accompagnate dall’epiteto Kerriiais, cioè Cereale o meglio “che fa crescere”, che fa riferimento alla funzione di propiziazione della crescita e che deriva, ovviamente, dal nome della dea Cerere, divinità della vegetazione e delle messi. Queste divinità sono: Vezkei, in latino Veiove; Evklui Paterei, Euclo Padre, interpretato come Ade o come Hermes dai greci, quindi forse con funzioni di psicopompo o legato al mondo dei morti; Futrei Kerriai, la figlia di Cerere; Anter Statai, per i latini Stata Mater; Ammai Kerriiai, Maia, la divinità italica della primavera che solo in età ellenistica fu identificata con l’omonima greca, madre di Hermes; Diumpais Kerriiais, Ninfe delle sorgenti; Liganakdikei Entrai, divinità della vegetazione e dei frutti; Anafriss Kerriiuis, Ninfe delle piogge; Maatuis Kerriiuis, dea della rugiada che arricchisce i raccolti; Diuvei Verehasiui, per i latini Iuppiter Virgator, fustigatore, probabilmente legato ai rituali dei Lupercalia, in cui i sacerdoti colpivano con strisce di cuoio le mani delle donne che si offrivano ai colpi per assicurarsi la fertilità; Diuvei Regaturei o Iuppiter Pluvius per i Latini; Hereklui Kerriiui, Ercole; Patanai Piistiai, dea della vinificazione; Deivai Genetai, in latino Mana Geneta; Pernai Kerriiai, per i latini Pales, dea legata alla pastorizia; Fluusai, Flora, divinità della terra protettrice dei germogli. I Sanniti di Agnone versavano una tassa per il mantenimento del recinto sacro e nella tavola si specifica che esso appartiene a chi ha pagato la decima e quindi ha il diritto di frequentarlo. All’interno di questo orto sacro sorgevano quindici altari; all’esterno si svolgevano riti in onore di Flora. L’orto sacro di Agnone è un esempio dei primi luoghi di culto, luoghi aperti, boschi e vallate; solo in un secondo momento i Sanniti edificarono santuari, il più noto dei quali è quello di Pietrabbondante, santuario federale della lega sannitica, con un grande tempio con tre celle e tre altari per tre divinità, di cui conosciamo solo la dea Vittoria, e un teatro. In ciò possiamo probabilmente riconoscere l’influenza dei greci, che si esercitò a partire dal VI secolo. Mamerte era un’altra delle divinità principali, equivalente del latino Marte, che aveva Heres per compagno d’armi; in comune con i Sabini avevano la dea Famel, dea della terra. Altra dea di grande importanza, passata a Roma prima come divinità autonoma e in seguito come appellativo di Giunone, era Lucina, dea della nascita. Come gli altri popoli osco-umbri avevano un animale sacro, nel loro caso il toro, mentre il gallo era l’animale sacro della lega sannitica.

Animale sacro degli Irpini era invece il lupo, da cui deriva il loro nome, hirpus, in sannita lupo. Erano una popolazione di lingua osca, stanziati nella parte meridionale del Sannio, attorno al luogo in cui sarebbe sorta poi la colonia di Beneventum. Erano anche detti Hirpi Sorani (lupi del Soratte, monte dov’erano celebrati i culti); poiché lo storico Servio afferma che gli Irpini fossero legati al culto di Dis Pater, una divinità infera latina, alla quale doveva essere assimilata l’originale divinità irpina, qualche studioso ritiene che l’aggettivo Sorani derivi dal nome della divinità infera etrusca Suri. Praticavano la pirobazia, la pratica rituale di camminare a piedi nudi sulle braci.

Anche ai Lucani era sacro il lupo, come si può dedurre dal loro nome, dato loro dai greci dalla parola che significa lupo, lukos; secondo alcuni filologi il nome deriva piuttosto dalla parola che indica il bosco sacro (in latino Lucus).

Più a Sud ancora, nella regione dell’attuale Calabria, si stanziarono i Bruzi o Bretti, che gli storici antichi vogliono pastori o servi dei Lucani e poi ribellatisi a questi, popolazione rude e nomade che avrebbe conquistato diverse città magnogreche prima di essere sconfitta dai Romani durante le guerre puniche, in cui si schierarono con Annibale. I ritrovamenti archeologici confermano che i Bruzi non crearono mai città vere e proprie, ma i loro insediamenti consistevano in un oppidum e nelle villae collegate. Non ci resta traccia però della loro civiltà culturale.

Dall’Illiria arrivò la terza ondata indoeuropea, che precedette quelle di Greci, Celti e Germani: attraversarono l’Adriatico varie popolazioni che si insediarono in Puglia, nella zona tra Abruzzo e Marche, dove si sovrapposero alle popolazioni umbrosabelliche (i Picentes veri e propri), e in Veneto. In Puglia erano di origine illirica Dauni, Peucezi e Messapi; nella zona del Piceno i Liburni, della cui religione ci restano pochissime tracce, dal momento che si mescolarono a tal punto con i locali osco-umbri, che alcuni storici ritengono che le influenze illiriche presenti nella cultura picena siano il risultato di contatti a distanza e che i Liburni non abbiano mai in realtà occupato territori in Italia; così i Veneti, che gli archeologi definiscono “paleoveneti” per distinguerli da altre popolazioni cui fu attribuito il nome di Veneti, soprattutto dai celti della zona della Bretagna, abili navigatori sconfitti poi da Cesare.

Il nome dei Veneti deriva dalla radice ven- che significa “amato, amico” quindi significherebbe “membri di gruppi legati da vincoli di parentela” oppure da una radice analoga con significato di “vincitori”. Secondo alcune fonti sarebbero gli stessi Enetoi (parola greca che significa “degni di lode”) che compaiono nell’Iliade come popolazione della Paflagonia e poi in Erodoto che li colloca giustamente sull’Adriatico; ai greci, come poi ai romani, erano noti soprattutto come abilissimi allevatori di cavalli. Il termine in sé non implica però un ceppo comune che si sarebbe diviso in gruppi. Sarebbero giunti in Italia dall’Illiria attorno al 1200 a.e.v.; la loro lingua, attestata da iscrizioni, è una lingua indoeuropea che ha affinità anche con i ceppi italici, il greco e il germanico, mentre il loro alfabeto è derivato da quello etrusco chiusino, con il prestito del carattere greco per la lettera O e scrittura sillabica. La cultura paleoveneta è detta dagli archeologi atestina, dal nome della città di Este, il loro centro maggiore, presso il quale si trovava, vicino al fiume Adige, il santuario della dea Reitia, forse legata alla guarigione, come si può dedurre dagli ex-voto ritrovati presso il tempio, di sicuro alla scrittura, come provano le tavolette alfabetiche e gli stili scrittori ritrovati in gran numero. Probabilmente presso il santuario di Reitia erano stabilite delle scuole. Sempre attorno ad Este sorgeva un tempio dedicato ai Dioscuri (interpretatio greca di due divinità gemelle, caratteristica di molte religioni indoeuropee), uno ad una divinità femminile guerriera non meglio identificata, e un quarto santuario che potrebbe essere un auguraculum. La maggior parte dei templi veneti si trovava vicino a sorgenti d’acqua; in Cadore c’era un tempio dedicato ad una dea triforme o forse al dio Trumusiate; presso le sorgenti di Abano era invece attivo il culto di Ercole e c’era un tempio dedicato al dio Apono.

Sotto il nome di Iapigi venivano designate tutte le popolazioni illiriche stanziatesi nell’odierna Puglia, che alcuni autori antichi volevano invece discendenti da Creta: Sallentini, Calabri, Messapi, Peucezi, Dauni. Di Sallentini, Calabri e Peucezi non sappiamo molto, ci pervengono più notizie riguardanti gli altri due gruppi.

I Dauni erano stanziati nella parte settentrionale della Puglia; non conosciamo molto della loro cultura e religione, ma ci restano alcune stele antropomorfe, che recano disegnate braccia e mani e un’armatura per le entità maschili, una veste per quelle femminili, mentre in cima hanno un perno su cui doveva essere innestato una testa. Lo status dell’entità raffigurata sulla stele, da mettere forse in relazione con il culto dei defunti, era rappresentato attraverso monili, armi, grafemi sferoidali, scenette popolate da personaggi e animali, colorate. Le scene differiscono a seconda del sesso dell’essere raffigurato: scene di guerra e caccia per le stele maschili, di vario genere per quelle femminili. Su alcune di queste ultime sono stati notati dei papaveri da oppio, perciò si è ipotizzato che fosse utilizzato, oltre che per scopi medicinali, anche per scopi religiosi estatici.

Più a sud erano stanziati i Messapi, giunti in Italia durante l’età del Ferro; mantennero contatti con le altre popolazioni di origine illirica, sia con quelle rimaste sull’altra sponda dell’Adriatico, sia con quelle emigrate, soprattutto con i Veneti. Alcuni autori antichi, Erodoto compreso, li definisce discendenti dei Cretesi, che sulle coste del Salento si sarebbero mescolati alle popolazioni precedenti. La lingua dei Messapi, attestata in numerose iscrizioni pubbliche, funerarie, votive, numismatiche in alfabeto greco di Taranto, li colloca invece tra le popolazioni illiriche. Anche la religione subì l’influenza greca, tanto che alcune divinità messapiche richiamano nel nome divinità greche. Nelle iscrizioni di Torre dell’Orso e in quella di Roca vi sono però anche nomi di divinità tipicamente messapiche: Tator o Taotor, uno degli dei più importanti, o il dio Batio, venerato nei rovi (da cui il nome) e raffigurato talvolta come un dio, talvolta come una dea che allatta il figlio. Batio venne poi identificato con Giove e venerato come Giove Batio, ma il culto della dea della crescita rimase vivo nell’età post-messapica. Ana è invece la dea che più tardi fu assimilata alla greca Afrodite, come dimostra una dedica ad Afrodite Ana rinvenuta su un capitello.

Questo è il quadro generale della situazione italiana. Si tratta ovviamente solo di una panoramica, che vuole semplicemente dare un’idea della complessità e dell’intreccio delle popolazioni nel territorio che oggi viene chiamato Italia. Anche se qui sono state presentate come popolazioni distinte, in realtà i vari gruppi si sovrapposero nei vari territori, fino a mescolarsi definitivamente sotto la dominazione romana.

La Federazione Pagana, non avendo un “indirizzo” etnico-religioso predominante (se non nel senso “numerico” del termine, cioè per quanto riguarda le scelte della maggioranza dei soci) si propone di sostenere lo sviluppo del paganesimo e perciò di tutti questi paganesimi ed altri, lasciando a ciascuno la riscoperta, storica ed emotiva, delle proprie radici.

Manuela Simeoni






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