NIKE

Come già annunciato più volte durante le trasmissioni radiofoniche e anche al dibattito di maggio, la Federazione Pagana ha acquistato la prima statua per il bosco sacro, una riproduzione della Nike di Samotracia in marmo e cemento, che sarà consacrata durante il rito del solstizio d’estate.

La divinità Nike, parola che in greco significa Vittoria, è citata giàà in Esiodo, che ai versi 383-388 così recita:

Stige, figlia di Oceano, generòò, unita a Pallante,

Rivalitàà e Vittoria dalle belle caviglie, dentro il palazzo di lui,

e Potere e Forza generò, illustri suoi figli,

lontano dai quali di Zeus non c’è casa né sede,

né c’è via per cui ad essi il dio non comandi,

ma sempre presso Zeus che tuona profondo hanno la loro dimora

La Teogonia prosegue quindi narrando di Stige (figlia di Teti e di Oceano, mentre Pallante era il titano figlio di Euribia e di Crio) che per prima assieme ai suoi figli risponde all’appello di Zeus che chiama a raccolta gli immortali perché si schierino al suo fianco nella lotta contro i Titani; per questo Rivalità (o Contesa, a seconda delle traduzioni, il che ci riporta alla filosofia eraclitea, o ancora Invidia, ma il greco è Zelos, che in generale indica l’ardore, il trasporto e quindi anche il sentimento di emulazione e competizione), Vittoria, Potere (ovvero la forza dovuta alla robustezza e il comando che ne deriva) e Forza (o Violenza, sempre a seconda delle traduzioni; ma il greco pare indicare la forza finalizzata alla costrizione o al superamento di qualcuno o qualcosa) risiedono presso Zeus. Presso i Romani, che introdussero il culto alla dea Vittoria molto tardi e sempre per influssi ellenistici, le prerogative di questa dea appartenevano a Iuppiter Victor, Giove vincitore, e in ciò si può cogliere l’analogia con la mitologia greca.

L’inno omerico ad Ares, invece, al verso 4, (Hymn. Hom. VIII) dice che Ares è “padre di Nike gloriosa”. Il rapporto tra le due divinità sembra essere più allegorico che mitologico (e Ares è associato anche a Temi, in quanto suo “sostegno”); l’inno stesso viene considerato tardo anche rispetto alla redazione finale della raccolta degli inni cosiddetti omerici, che avviene attorno a I secolo a.e.v. Sia dal punto di vista dello stile che del contenuto, quest’inno non pare essere una composizione rapsodica, ma una composizione tarda vicina al modello orfico. Addirittura, M. L. West lo attribuisce a Proclo e quindi il testo sarebbe da datarsi attorno al V secolo e.v., finito per errore del copista tra gli inni omerici, durante la copiatura dell’antologia innodica bizantina, in cui comparivano anche inni di Proclo, mentre Gelzer lo attribuisce a Porfirio o ad un filosofo della sua cerchia. Lo stile della composizione comunque lo riconduce agli inni orfici e neoplatonici. Tanto più che Nike non era considerata, almeno non esclusivamente, portatrice di vittoria in battaglia.

Per gli orfici, Nike è “dal dolce suono” (Proemio v.36; un epiteto che in Esiodo è riservato alle Muse) e le viene dedicato un intero inno.

Nike è quindi la vittoria, il trionfo e in quanto divinità portatrice (o che sancisce la vittoria ottenuta, ma non “crea” la vittoria; piuttosto, se vogliamo notare l’epiteto con cui viene definita nel proemio degli inni orfici, ne è l’ispiratrice), era quasi sempre rappresentata alata, con le ali sulle spalle o ai piedi, anche se Pausania cita sue statue senza ali. In età arcaica appare raffigurata avvolta in una lunga veste che pare agitata dal vento, con il ginocchio flesso che indica la corsa (secondo uno schema che gli storici dell’arte chiamano “schema della corsa in ginocchio”) così è la statua cosiddetta della Nike di Delo, attribuita ad Archemos di Chio e datata al VI secolo a.e.v., giunta mutila. Priva di ali e di parte degli arti, nella ricostruzione di Ducati in L’arte classica appare dotata di ben quattro ali alle spalle, due più grandi e un paio più piccole e altre due alle caviglie, arrotondate verso l’alto alla maniera fenicia. Originariamente doveva trovarsi in cima ad una colonna; Bianchi Bandinelli rifiuta però l’identificazione di questa statua con la dea Nike. Oggi è visibile al Museo Nazionale di Atene.

In seguito la dea, appartenente alla prima stirpe divina, venne collegata alla stirpe divina olimpica, in età classica, quando venne fatta diventare compagna di Athena, con cui, soprattutto ad Atene, finì per identificarsi, al punto tale che, se nei rilievi del tempio dell’Acropoli si può vedere la dea mentre parla con Athena e anche mentre porta una vittima sacrificale, sulla stessa Acropoli è edificato, fra il 430 e il 421 a.e.v. un tempietto ad Athena Nike, in sostituzione di quello distrutto dai Persiani. L’importanza della dea resta comunque capitale ed era abitudine dedicarle una statua in molti templi. Talvolta era raffigurata più di una Nike e ogni vincitore, dio o eroe, aveva la propria, raffigurata accanto a lui, in genere mentre gli consegnava una corona d’alloro o un ramo di palma. I Messeni e i Naupattieni ne offrirono una, scolpita da Paionios di Mende, davanti al tempio di Zeus ad Olimpia (cittàà in cui Nike era celebrata assieme a Zeus Katharsios), in occasione della loro vittoria sugli spartani. Con questa Nike si afferma definitivamente l’iconografia di una dea che pare portata dal vento a causa dell’elaborato e fluido, frutto di un lungo studio, panneggio di matrice fidiaca, già presente nella Nike che si slaccia il sandalo dei bassorilievi del tempio di Athena Nike sull’acropoli. La stoffa della veste appare aderente alla parte anteriore del corpo e rigonfio e fluttuante alle spalle della dea, dando quindi l’impressione che essa avanzi nell’aria. La statua, conservata al museo di Olimpia, è datata attorno al 425 a.e.v. Dopo le guerre persiane, il culto di Nike crebbe, ma non le fu tributato un culto individuale fino all’ellenismo, cioè fino all’epoca della morte di Alessandro Magno e della nascita dei regni ellenistici.

In questo contesto si colloca la Nike di Samotracia, datata attorno al 190 a.e.v.; il nome deriva dal luogo del suo ritrovamento, avvenuto nel 1863 nell’isola di Samotracia, presso il Santuario dei Grandi Dei (cioè i Cabiri, divinitàà di numero imprecisato e dal culto antichissimo, cui era dedicato un culto misterico nell’isola e che erano ora considerati discendenti di Efesto, ora accostati a Demetra, detta anche Demetra Cabeiraia, ora ai Dioscuri e perciò legati alla navigazione; secondo Mazzarino, autore di Fra Oriente e Occidente, i Cabiri sarebbero divinità Fenicie della navigazione, secondo altri il culto è originario dell’Anatolia). Fu il console francese a trovarla, ridotta in pezzi, e perciò si trova oggi al museo del Louvre, che le ha dedicato l’attenzione che si merita: è posta in cima ad una scalinata che consente al visitatore di guardarla prima dal basso verso l’alto, mentre sale e infine, raggiunto il piano, di osservarla da lontano da una balaustra, per coglierla nel suo insieme. L’iconografia di questa Nike riprende quella della Nike di Paionos: la dea è rappresentata appoggiata sulla gamba destra, sulla prua di una nave, nell’atto di posarvisi o di prendere il volo, con la gamba sinistra arretrata per dare slancio e le ali aperte. La posa instabile ricorda le statue di Lisippo, in equilibrio instabile che dà l’impressione di doversi rompere da un momento all’altro, mentre il panneggio della veste che le ricopre il corpo è chiaramente fidiaco e, aderente sul davanti e rigonfio dietro, ricorda da vicino quello della Nike di Paionos. A questa Nike mancano le braccia, che dovevano essere disposte, in base ai frammenti ritrovati il destro avanti e il sinistro arretrato, e la testa, anche se l’insieme risulta comunque molto armonico. La statua doveva essere originaria di Rodi, dove esisteva una grande tradizione artistica di ispirazione lisippea e secondo alcuni opera di Pitocrito di Rodi; gli abitanti dell’isola di Rodi l’avrebbero dedicata dopo la vittoria di Apamea (185 a.e.v.) contro Antioco III di Siria. La prua su cui poggia la statua della dea ha la sua ragione di essere nel fatto che la battaglia avvenne sul mare; originariamente la statua ornava una fontana presso il Santuario dei Grandi Dei, che, come detto prima, erano legati alla navigazione, soprattutto nel periodo ellenistico, in cui anche il loro numero venne fissato a due, e il cui culto misterico esercitava una forte attrazione anche su soldati e commercianti romani e italici.

A Roma il culto della dea Vittoria giunse invece molto tardi; le prerogative di Nike erano prima assegnate a Iuppiter Victor, Giove Vincitore, poi, all’incirca durante l’epoca di Silla, il suo culto venne introdotto a Roma, ma si trattò di un culto strumentalizzato a fini politici, perciò si ebbero prima una Victoria Sullana, poi una Victoria Caesaris e infine, cardine della politica augustea, una Victoria Augusta. Perciò a Roma èè spesso rappresentata mentre tocca con le mani un globo terrestre o conferisce all’imperatore l’alloro del trionfo, per diventare poi autorappresentazione del potere imperiale. Tuttavia, va anche ricordata la difesa dell’altare della Vittoria, edificato per celebrare la vittoria di Augusto ad Azio e divenuto quasi il simbolo di quei romani che si opponevano al cristianesimo e si riconoscevano nell’antichità, che l’imperatore Graziano, su sollecitazione di Ambrogio, ordinò di rimuovere dalla curia; protagonista di questa lotta fu Quinto Aurelio Simmaco che con la sua relatio tenta di convincere l’’imperatore almeno dell’utilità pubblica di quel simbolo.

Come accade poi per un’infinità di altri dei, alcuni tratti della sua figura vengono riutilizzati dai cristiani: in questo caso sono gli angeli dei sarcofagi paleocristiani che vengono raffigurati come lei alati e recanti rami di palma.

Manuela Simeoni





Bibliografia:



-Biondetti L., Dizionario di mitologia classica, Baldini & Castoldi

-Miti e personaggi del mondo classico, Bruno Mondadori

-Enciclopedia dell’antichitàà classica, Garzanti

-Storia delle religioni, Biblioteca de La Repubblica

-Adorno P., L’arte italiana, tomo I volume I, D’Anna










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