FEDERAZIONE PAGANA

presentiamo


DAL POLITEISMO AL MONOTEISMO
   un articolo di Mario Alighiero Manacorda


Presentiamo questo articolo nella prospettiva della fondazione della Comunità Europea e della sua Costituzione.

Ricordando come il dio dei cristiani, che i cristiani vorrebbero inserito nella Costituzione Europea, altro non sia che il simbolo dei CAMPI DI STERMIO, il simbolo e la giustificazione dello STUPRO DEI BAMBINI, la giustificazione storica per ogni STRAGISMO che accettato come fare divino nell'attività del DILUVIO UNIVERSALE, ha giustificato la strage di SODOMA e GOMORRA per i capricci di un dio assassino finendo con l'ordine del pazzo di Nazareth di sgozzare chiunque non si metta in ginocchio. Le chiese cristiane e quella cattolica in particolare portano su di sé la responsabilità giuridica e religiosa della manifestazione del loro dio nei Sistemi Sociali Umani con DUE MILIARDI di persone annientate e distrutte! Cattolicesimo significa SCHIAVISMO! Cattolicesimo significa SPACCIO DI EROINA! Cattolicesimo significa STUPRO DI BAMBINI! Cattolicesimo significa FOBIE SESSUALI! Cattolicesimo significa DIFFUSIONE DELL'AIDS! Cattolicesimo significa STRAGISMO AD OPERA DEI MISSIONARI (il Ruanda è solo uno degli ultimi esempi!). Esaltare il dio dei cristiani, significa esaltare il diritto di torturare e distruggere chi non si può difendere!

E' QUESTA L'EUROPA CHE SI INTENDE COSTRUIRE?

Per questo motivo riteniamo interessante presentare un articolo che ci ricorda alcuni passaggi importanti che portarono alla nascita dell'orrore cristiano!

Claudio Simeoni

Meccanico

Apprendista Stregone

Guardianod ell'Anticristo


DAL POLITEISMO AL MONOTEISMO
    di Mario Alighiero Manacorda

Un articolo che è lo sviluppo della relazione introduttiva al Convegno su:
"2004: una Costituzione laica per l'Europa",
 tenutosi nella sala della Protomoteca in Campidoglio a Roma,
sabato 9 febbraio 2002,
per iniziativa della  "Società laica e plurale".


DAL POLITEISMO AL MONOTEISMO

Ogni volta che salgo qui in Campidoglio, mi piace dare uno sguardo, oltre
che a Marco Aurelio, l'imperatore filosofo, ritratto a cavallo come
guerriero ma col braccio levato in un ampio gesto di pace, anche ai musei
capitolini, che ospitano il monumento sepolcrale di due tra gli ultimi
rappresentanti del paganesimo, il console Pretestato e la moglie Paolina,
morti nel 384 e 385 dell'era volgare.
Nel monumento sepolcrale i due coniugi si rivolgono a vicenda alcuni versi
scolpiti nel marmo, in cui lui esalta lei, "dedita ai templi e amica dei
Numi, pudica, fedele, pura nella mente e nel corpo, benigna a tutti, utile
ai Penati"; e lei esalta lui, che nei dodici dèi del culto romano vedeva il
numen multiplex del dio unico, il Sole.
 Era lo stesso dio unico che anche Giuliano l'Apostata (la famiglia con lui
imparentata dei Ciconii faceva anch'essa parte del circolo dei Saturnalia)
aveva venerato come immagine di quel Dio padre, Zeus pater, a cui chiedeva
di mostrargli "la via che porta su, verso di te".
Nella loro casa Macrobio immagina nei Saturnalia che in liberalia colloquia,
alternando, come nel Simposio di Platone, seriae disputationes e qualche
sermo iucundior, si rivisitasse la tradizione culturale "pagana".  Tali
erano questi ultimi "pagani".

Parlerò del loro secolo, ma intendendo fare un discorso attuale, perché in
quello si svolse e si risolse il conflitto tra "paganesimo" (una parola per
me positiva, che userò da ora in poi senza virgolette) e cristianesimo.
Nasce infatti allora, grazie al connubio col potere imperiale nella sua fase
più autocratica, ereditandone la sede e in parte il potere, la forma del
cristianesimo come religione rivelata, dogmatica e intollerante, che fa capo
al papato romano; nasce allora l'antagonismo dei due poteri, ignoto al mondo
classico, che, attraversando tutto il Medioevo e l'età moderna, è ancora
oggi presente come rapporto conflittuale tra Stato e Chiesa.


IL BREVE SECOLO  IV

Mi sia consentito rievocare brevemente i dati minimi della storia di questo
secolo breve,  entro il quale inquadrare gli elementi della grande battaglia
ideale.

Il secolo si apre con la vittoria di Costantino contro Massenzio a Ponte
Milvio, nel 312, quando il cristianesimo, religione di pace, innalzò contro
il labaro imperiale di Ercole la croce di Cristo come vessillo di guerra:
In hoc signo vinces!
Possiamo forse ignorare che l'esercito vincitore non era certo cristiano,
dato che fino al giorno prima non sapeva nulla della visione cristiana del
suo comandante?
E che ambedue gli eserciti erano composti di mercenari?
Al momento del congedo i veterani acclameranno Costantino col grido rituale:
"Dei te nobis servent", al plurale: e solo due secoli dopo il Codice di
Giustiniano lo correggerà al singolare.
 Come è noto, subito dopo la vittoria, nel 313, Costantino promulgò il suo
famoso editto:
non cristiano, si badi, ma pagano, almeno nella forma, e perciò
politeistico, "di tolleranza";
 ma presto il suo esito pratico sarà l' intolleranza, una religione imposta
a forza, grazie all'alleanza tra potere imperiale ed ecclesiastico.
Poi, nel 330, trasferiva la capitale dell'impero a Costantinopoli, lasciando
quella Roma che era la roccaforte dell' aristocrazia senatoria pagana, e
dove si affacciava nel papato un potere alleato ma rivale.
Intanto, non a caso solo ora, sotto l'egida del potere imperiale, nei primi
concilii ecumenici di Nicea nel 325 e di Costantinopoli nel 381, il
cristianesimo definiva la sua teologia e la sua struttura
autocratica.

A questo consolidarsi del cristianesimo come potere si oppose, tra il 361 e
il 364 il breve tentativo di Giuliano "l'Apostata", cui dopo la nuova
repressione cristiana seguì, qui in Roma ma anche in Atene e Alessandria,
una breve rinascita pagana, che ebbe nel circolo romano dei Saturnalia una
sua alta espressione.
Ma nel 396, mentre la repressione imperiale si esprimeva in una serie di
duri editti, nella battaglia sul fiume Frigido, ai confini nord-orientali
d'Italia, il "pacifico" cristianesimo con Teodosio
vinceva ancora una volta in guerra;
e nel 409, il sacco di Roma a opera dei visigoti cristiani di Alarico
metteva l'ultimo sigillo.

Questi gli eventi essenziali di quel secolo, decisivo anche per noi: e con
millenni di storiografia, archeologia, antropologia culturale, sociologia
eccetera, ancora non sappiamo spiegarci compiutamente perché il
cristianesimo abbia vinto, e perché in guerra.
Scartando, ovviamente, la vacua ipotesi dell'intervento divino con le sue
miracolose visioni e i
massacri in guerra, dobbiamo domandarci: quali furono queste cagioni?
Forse, entro le complesse questioni socio-economiche della crisi generale
dell' impero, la forza di attrazione della iniziale connotazione
rivoluzionaria del cristianesimo?
O, di là dalla casualità delle guerre, la sempre più profonda divisione tra
intellettuali e popolo, che lasciava gli intellettuali pagani in una
solitaria difesa della tradizione, dall' apparenza conservatrice?
O una superiorità culturale e morale del monoteismo cristiano sul politeismo
pagano?


DAL MITO AL DOGMA

Cerchiamo di capire come si svolse la battaglia delle idee in quel decisivo
quarto secolo.

Una vulgata storiografica, che ancora rispecchia le idee dei vincitori
cristiani, continua a tramandarci un'immagine dominante:
da una parte politeismo, dall'altra monoteismo:
romani politeisti e intolleranti, cristiani monoteisti e tolleranti;
romani persecutori e cristiani perseguitati;
romani dediti ai circensi e cristiani dediti alle chiese, gli uni feroci e
gli altri miti, e così via.
Che gratificante immaginazione storica!  Ma è credibile?
In realtà questa vulgata è da rovesciare:
ma per farlo dobbiamo cominciare dal chiarirci le idee su politeismo e
monoteismo.

 Riprendendo la paradossale definizione delle idee platoniche che Croce
riferiva di aver ascoltato da un vecchio filosofo napoletano, potremmo
suggerire una cautela preliminare: non fare di politeismo e monoteismo dei
"caci cavalli appisi", cioè non elevare questi nomi o astrazioni a enti,
dando loro la consistenza materiale di cose reali, appese sopra le nostre
teste.
Questi nomi o etichette altro non sono che allusioni, di cui ci serviamo in
ogni campo della ricerca culturale, presupponendo un comune loro significato
nelle menti dei nostri interlocutori.
Ma guai a dimenticare che sotto di essi vivono, in determinate condizioni
sociali e culturali, persone vive, diverse tra loro, e in sé
contraddittorie; e guai ad attribuire loro una connotazione positiva o
negativa.
Tuttavia continueremo a usarli, magari tra virgolette ideali, purché con
questa consapevolezza.

Si può dire in sintesi che il politeismo rappresenta una concezione
analitica, il monoteismo una concezione sintetica dell'universa natura,
anche se né l'uno né l'altro si esauriscono in queste forme.
Il politeismo, infatti, si presenta a sua volta in un duplice aspetto:
da una parte come culto di una molteplicità di presenze o forze naturali,
cielo e corpi celesti, terra e mari, monti, laghi, fiumi, sorgenti, boschi,
e le manifestazioni atmosferiche e così via, premesse della nostra vita,
concepite come manifestazioni divine; dall'altra, come molteplicità diffusa
di culti etnici monoteistici, in cui ogni popolo venera i propri progenitori
o fondatori o eroi eponimi, in perenne confronto, competitivo o meno, tra
loro.
E anche il monoteismo presenta una sua duplice natura, da una parte come
rinvio, di là dalla moltitudine delle manifestazioni naturali, a un loro
principio unico; dall'altra, come una forma intollerante del politeismo
diffuso, ma "geloso" (la definizione è di Mosè), per cui il proprio dio
appare a ciascuno superiore agli altri, quindi l'unico vero.
 In questo caso, la superiorità intellettuale e morale, nelle menti degli
uomini reali, dell'una o dell'altra versione della religione, quella
politeistica o quella monoteistica, sarebbe tutta da dimostrare: né,
d'altronde, si scriverebbe così la storia della filosofia.

Tipico, in concreto, l'esempio dell'incerto procedere degli ebrei tra
politeismo e monoteismo.
Sì, c'è nella Genesi la presenza di un dio unico, ma talmente confusa che in
realtà si vedono due dèi diversissimi, l'uno creatore per la forza della
parola, l'altro un signore di terre aride, che attende chi gliele irrighi e
coltivi.
Ma è poi politeista il patriarca Abramo che si confronta con gli dèi di
altri re, ricevendone la benedizione e pagando loro le decime.
 E tra gli ebrei compaiono perfino piccoli dèi etnici, lari o penati, come
tra Labano e Giacobbe, zio e nipote, che dichiarano:
"Il dio di Abramo e il dio di Nacor siano giudici tra noi".
E Mosè, dovendo dare alla "masnada promiscua e raccogliticcia", fuggita con
lui dall'Egitto, un dio etnico e "geloso" che ne facesse un popolo, impone,
con una guerra civile, il precetto "Non avrai altro dio fuori che me", che è
tutto meno che monoteistico.
E durante la monarchia il culto del dio unico - evidente proiezione in cielo
del monarca terreno - si affermerà con le armi nella lotta contro i culti
delle alture, dove si veneravano gli dei etnici dei
clan.
E l'ambiguo processo dal politeismo al monoteismo si compirà al ritorno
dalla cattività babilonese, quando, con Esdra e Neemia, sotto l' influsso
del dio unico dei persiani di Ciro, Jahvè sarà insieme il dio unico del
cielo e della terra e il dio geloso del popolo ebreo: e, purtroppo, sarà
anche l'emblema di un razzismo teologico che spingerà a ripudiare mogli e
figli dei connubi babilonesi.

 Come per gli ebrei, politeismo e monoteismo appaiono sempre variamente
intrecciati, e possono mostrarsi ora tolleranti ora intolleranti.
 Resta comunque che, in generale e fuori dai momenti conflittuali,  il
politeismo è convivenza di più dèi, e perciò tendenzialmente tolleranza
religiosa e accoglienza di culti altrui; il monoteismo è troppo spesso un
culto geloso e magari aggressivo (o missionario).
In che modo, allora, una società politeistica come quella romana, abituata
ad accogliere nel proprio Pantheon tutti gli dèi, sarebbe stata
intollerante?
E in che modo, invece, un culto monoteistico avrebbe rappresentato una nuova
e più profonda libertà?

Venendo a  Roma, la sua storia mostra un ininterrotto susseguirsi di quelle
che Cicerone chiamava "insitivae doctrinae", cioè culture o religioni
trapiantate o importate, a cominciare dalla etrusca e dalla greca: insitiva
la doctrina, romani i mores, diceva.
Anche il cristianesimo era una insitiva  doctrina, un mito straniero,
peregrinus: che però fu respinto.  Perché diverso dagli altri?
E in che cosa? Per il suo monoteismo, per i costumi, o per che altro?

Il paganesimo ellenistico-romano, almeno al livello colto degli
intellettuali, tende sempre più, magari anche sotto la spinta cristiana, ad
essere altrettanto monoteistico; mentre a livello popolare, e non solo, il
cristianesimo appare fin troppo politeistico.
Pagani e cristiani non si differenziavano molto, anche perché non c'era, se
non nell'oleografia, un
tipo unico dell'uno e dell'altro, e molti esitavano nel decidere quale nome
o etichetta darsi, e magari si ricredevano.
E gli stessi cristiani si dividevano in sètte, definite a vicenda eretiche,
che si combattevano con
ferocia pari a quella usata contro i pagani.
E credevano anche loro nella reale esistenza degli dèì pagani, sia pure come
idoli o demoni:
Tertulliano definiva il circo tempio di tutti i demoni, e di fronte a questa
mentalità il più riflessivo Cipriano dové scrivere un libro per spiegare che
gli idoli non esistono, Quod idola non sint.
E allora, dov'era la diversità?

Sembra a me che la diversità tra pagani e cristiani stia non tanto nell'
opposizione tra i due "caci cavalli appisi" del politeismo e del monoteismo,
quanto in un diverso atteggiamento mentale nei riguardi della religione,
dell'uno o dell'altro tipo.
Ciò che per i pagani è mito, per i cristiani è dogma :
e qui è il discrimine tra tolleranza e intolleranza. Per dirla con Platone,
il mito, cui si ricorre quando la ragione non basti a spiegare le cose, è
una immaginazione plausibile, che comunque lascia aperta la ricerca, anche
se poi "solo Dio sa se questa immaginazione risponda a verità".
Questo gli intellettuali pagani lo sanno bene: Giuliano l'Apostata,
discutendo con Eraclio, spiega che i miti "vanno intesi in misura più che
umana, non credendo semplicemente ma indagandone il significato riposto"; e
del suo stesso discorso lascia incerto se "sia mito o discorso vero";
e si mostra addirittura insofferente di dover ricorrere al mito:
"Costringi anche me a farmi inventore di miti".
 Il mito è fantasia e ricerca, e perciò tolleranza;
il dogma, ignoto alla tradizione classica, è immaginazione cristallizzata in
verità assoluta, è preclusione di ogni fantasia, e perciò intolleranza.
Ma i cristiani trasformano il mito in verità, la verità in dogma, e il dogma
in
imposizione a tutti con la forza del potere.
È questa, storicamente, la differenza essenziale tra paganesimo e
cristianesimo.


LA TOLLERANZA POLITEISTICA DEI PAGANI

Tollerante era la religiosità romana: e lo mostrerò con le parole dei suoi
protagonisti.
Comincerò anzi da tre testimonianze risalenti al III e al II secolo a.C.,
provenienti dagli stessi romani, dai greci, e dagli ebrei.

 Se è vero che in Roma, come presso tutti i popoli, non mancarono sacrifici
umani in nome della religione, come quelli delle vestali sacrificate per le
loro inadempienze rispetto al rito, è pur vero quanto ci narra Plinio il
vecchio, che nel 287 a.C. i romani, primi tra tutti i popoli, nell' emendare
l'antica legge delle XII Tavole, abolirono "quei sacrifici mostruosi nei
quali era considerato cosa religiosissima uccidere un uomo", sancendo "che
nessuno fosse immolato" (ne homo immolaretur), cioè condannato a morte per
motivi di religione.
Un grande principio, mai rispettato dal cristianesimo dalla sua ascesa al
potere in questo IV secolo fino a ieri, quando il potere statale gli è stato
finalmente tolto.
E anche più chiare sullo spirito di tolleranza dei romani le testimonianze
greche ed ebraiche.
Gli ambasciatori della Locride, teste Livio, li onorarono perché "non solo
veneravano i loro
dèi, ma accoglievano e veneravano con anche maggiori onori gli dèi degli
altri".
E gli ebrei, nei due libri dei Maccabei, deuterocanonici ma
storiograficamente di grande interesse, li ammiravano non solo per la loro
potenza, ma anche "perché accordano amicizia ai popoli, e non c'è in loro né
invidia né gelosia": cosa che, detta da cultori di un dio "geloso",  si
riferisce chiaramente alla religione.
Ma è da dire che, in una città che Livio definiva "religiosissima"
soprattutto nei momenti duri delle guerre, in generale gli intellettuali
romani furono, semmai, piuttosto scettici o indifferenti:
consideravano la religione un insieme di miti tradizionali da rispettare
come la propria irrinunciabile eredità culturale, ma da ripensare in privato
liberamente.
 Si pensi, come esempi del loro atteggiamento, all'epicureo Lucrezio, il
quale cominciava il suo poema con la stupenda invocazione a Venere, insieme
"genitrice degli Eneadi" e immagine della rigogliosa natura, ma denunciava
poi ogni mentalità religiosa, al punto di esclamare:
"Quanti mali la religione poté persuadere!";
 e laicamente pensava: "Dio è che il mortale aiuti il mortale, e questa è la
via verso l'eterna gloria". Si pensi al sentire panteistico di Virgilio, col
suo evocare lo Spiritus vivificante e la mens che "diffusa per le membra,
agita l'intera mole e si confonde con gran corpo".
O a Ovidio, che all'inizio del gran poema sulle Metamorfosi, capolavoro del
politeismo come fantasiosa lettura analitica della natura, ripercorre i due
miti orientali delle origini con formulazioni identiche a quelle della
Genesi biblica, ma segnandone apertamente la diversità:
"Sia vero questo racconto o l'altro".
E qui c'è da domandarsi: ma perché ci siamo dimenticati di Ovidio e abbiamo
voluto ricordare soltanto quel grandioso ma stupido mito della Genesi, e
farne un dogma?
E si pensi poi a Seneca e alla sua riflessione morale, alta indagine
interiore della coscienza, che gli
stessi cristiani vollero accaparrarsi.
Semmai, il limite di questi atteggiamenti è che segnalano una divisione tra
intellettuali e popolo, che sarà non ultima cagione della sconfitta del
paganesimo.

 Ma, per venire ad aspetti più concreti sulla diversità tra pagani e
cristiani, ecco Cicerone disposto a credere negli dèi e in un cielo per le
anime grandi (si quis piorum manibus locus...), che non credeva però negli
aruspici.
E Livio, un grande conservatore, che nella sua storia registrava
attentamente le manifestazioni religiose in occasione di guerre e di ludi, e
di fronte all'indifferentismo dei suoi tempi dichiarava:
 "A me, mentre scrivo di queste cose vetuste, non so come, l'animo mi si fa
antico, e mi forza a ritenere degne di esser riferite nei miei annali le
cose che uomini saggissimi intesero venerare pubblicamente".
Religiosità, dunque, solo in quanto rispetto per la tradizione.
Perciò era loro incomprensibile il settarismo (oggi diremmo fondamentalismo)
giudaico e cristiano, una superstitio.
Plinio il vecchio, accomunando la religione di Mosè alle "sètte magiche",
parlava degli ebrei come di "un popolo insigne per il suo disprezzo verso
gli dèi";
Svetonio di "una razza di gente di una nuova e malefica superstizione";
Tacito di "un popolo incline alla superstizione e contrario alle religioni",
che "nella sua ostinazione religiosa e nel suo odio accanito verso tutti...
considera empio tutto ciò che da noi è sacro...
disprezza  gli dèi e ha a vile la patria".
Dove patria significa ormai quell'impero che, ai tempi di Pretestato,
Rutilio Namaziano esalterà dicendo, rivolto a Roma:
"Hai dato a genti diverse una patria comune" (Fecisti patriam diversis
gentibus unam).
Ciò che appare intollerabile ai pagani è l' intolleranza degli ebrei e dei
cristiani.
E questi loro giudizi ci saranno ampiamente confermati dagli stessi
cristiani, che se ne faranno anzi un vanto.

Più tardi, la battaglia delle idee tra pagani e cristiani ci è testimoniata
egualmente dagli uni e dagli altri: sia dai neoplatonici come Plotino e
Porfirio, che dai cristiani Tertulliano e poi Lattanzio e Arnobio, i quali
riferiscono l'accusa rivolta dai pagani ai cristiani, di "venerare un uomo,
per di più torturato e crocifisso da uomini", di  "sostenere che un essere
nato uomo e morto in croce era un dio", di praticare nell'eucarestia, in cui
il corpo mangiato preserverebbe l'anima nella vita eterna, un rito
cannibalico, non giustificato nemmeno dalla sua intenzione mitologica o
allegorica.
E dai pagani, come ricorda Arnobio, veniva la domanda: "Se vi sta a cuore il
culto divino, perché non venerate con noi gli altri dèi e non praticate in
comune i riti religiosi?".
E il pagano Simmaco, amico di Pretestato nel circolo romano dei Saturnalia,
nel chiedere la restituzione in senato dell'altare della Vittoria che
l'imperatore Costanzo II aveva rimosso nel 357, chiariva il senso della
religiosità pagana di fronte a quella cristiana riconoscendo che "ognuno ha
i suoi costumi, la sua religione", spiegando che "quasi tutti gli dèi, greci
e romani e dei culti orientali, altro non sono che rappresentazioni del
Sole", e ammonendo che a comprendere "un segreto così grande non si può
giungere per una sola via": e infine, altro non chiedeva se non di
"ripristinare quella condizione della religione che ha giovato a lungo allo
Stato".

Tale era il modo di vedere dei pagani, che proprio non capivano perché si
volesse cancellare l'antica religione e imporne d'autorità un'altra.




LA TOLLERANZA RELIGIOSA NELLA ROMA IMPERIALE

Mi si dirà: d'accordo per gli intellettuali, ma il potere imperiale?
Ebbene, anche il potere romano era rispettoso, anzi curioso delle religioni
altrui:
del resto, ciò faceva parte non solo del costume, ma anche di un progetto
politico generale, di accaparramento del favore possibile di tutte le
divinità, come avevano ben visto gli ambasciatori della Locride. E anche qui
possiamo citarne alcune testimonianze.

 Secondo il racconto dello storico ebreo Flavio Giuseppe, già nel 64 a.C.,
Pompeo, espugnata Gerusalemme ed entrato nel tempio di Jahvè, non solo si
astenne dal toccarne i tesori, ma reintegrò i sacerdoti e ordinò riti
espiatori per la violazione compiuta.
Cesare rinnovò l'antica amicizia del tempo dei Maccabei, e Augusto non solo
consentì che gli ebrei "seguissero i loro costumi rispettando la legge dei
loro padri", ma concesse franchigie
per le rendite del tempio.
Adriano meditò di innalzare un tempio a Cristo e "dispose che in tutte le
città si facessero templi senza immagini, detti appunto di Adriano".
E anche Severo Alessandro, che venerava Abramo, Cristo e Orfeo, voleva
innalzare templi senza immagini, ma ne fu dissuaso dai consiglieri che lo
ammonirono che il risultato sarebbe stato che alla fine tutti sarebbero
andati ai templi cristiani.
E, ancora, secondo il cristiano Paolo Orosio, nel 244, a celebrare il primo
millennio dalla fondazione di Roma fu un imperatore cristiano, Filippo
l'Arabo che, a quanto pare senza troppo scandalo, avrebbe perfino trascurato
i riti pagani tradizionali.

Dunque, anche l'impero era incline a riconoscere libertà religiosa per
tutti.
E anche dopo Costantino e i suoi successori, duri persecutori dei pagani,
Giuliano l'Apostata operò formalmente nel solco della tolleranza
costantiniana, quando riaprì i templi pagani senza perciò chiudere le chiese
cristiane.
Vero è tuttavia che, nel ridar vita alla tradizione classica, egli impose
che nelle università
"tutti coloro che richiedono di insegnare... abbiano convinzioni non
contrastanti con quelle che professano"   : non si può, diceva, commentare
poeti che parlano di Giove, e credere in Jahvè o in Cristo.
 Chiedeva, insomma, coerenza, lasciando ai professori cristiani la scelta
"di andare nelle chiese dei galilei a esporre Matteo e Luca".
Moralmente ineccepibile: anche se c'è da temere che proprio questo suo
intervento possa essere servito ai cristiani come un precedente da portare a
conseguenze estreme di intolleranza.

Mi si dirà ancora: sì, d'accordo, non solo gli intellettuali romani saranno
stati tolleranti, ma anche alcuni imperatori che possiamo definire
intellettuali saranno stati rispettosi, ma le persecuzioni imperiali ci sono
state, e sadiche, e feroci.
Ahimè, sì: anche se la loro ferocia è parte non di una persecuzione
religiosa, ma di una repressione politica in forme comuni a tutta
l'antichità.
E sorvolo qui non certo per reticenza:
sono cose che sanno tutti a memoria, dato che, se non altro, fanno parte
della vulgata storiografica.
Ma non si possono trascurare altri aspetti, meno noti e certamente più veri.

Non si possono chiamare persecuzioni religiose le prime repressioni
occasionali da parte di Tiberio, Claudio e Nerone, rivolte contro ebrei e
cristiani che si azzuffavano continuamente tra di loro (adsidue
tumultuantes):
del resto, l'impero li conosceva assai poco, confondendo le due sette,
ebraica pura ed ebraico-cristiana.
Le persecuzioni ricorrenti verranno in seguito, nel generale inasprirsi
delle tensioni sociali, di
fronte alle insurrezioni legate spesso al nome cristiano, divenute
endemiche;
e soprattutto di fronte all'incomprensibile rifiuto cristiano degli dèi
degli altri:
un'offesa a tutti gli altri uomini, prima che una ribellione al potere.
La persecuzione imperiale, feroce come tutti i rapporti di pace e di guerra
allora (solo allora?), non è religiosa, ma politica:
come quella già avvenuta in piccolo contro i baccanali, proibiti nel 186
a.C. col Senatus consultum de bacchanalibus, rivolto non certo contro Bacco,
ma contro una licenziosità contraria al mos maiorum.
 Non si perseguitava la religione, bensì l'intolleranza cristiana verso
tutte le altre religioni, il
rifiuto di far parte della patria comune.
Erano i cristiani a non volere gli dèi degli altri, non gli altri a non
volere il dio cristiano:
e di questa intolleranza, ripeto, i cristiani si vantavano.


L'INTOLLERANZA MONOTEISTICA DEI CRISTIANI

Cristiani remissivi e pacifici? Un'altra appagante immaginazione storica!
Stavano davvero così le cose?  Anche qui è necessario correggere la vulgata
cristiana.
Di fronte alla durezza delle persecuzioni, la risposta cristiana fu dura:
in quegli anni i cristiani non saranno da meno dei pagani, dapprima
nell'immaginare la vendetta, poi nel praticarla.

Ma, anzitutto, che voleva poi dire essere cristiano?
In quel secolo di conflitti si poteva a lungo esitare tra le due visioni
della vita. Gli intellettuali pagani potevano credere in un dio padre, e gli
intellettuali cristiani potevano essere pagani per la loro formazione
culturale, se non anche per i costumi: è nota l'angoscia di san Gerolamo,
che avendo dichiarato in sogno a Dio: "Christianus sum", si sente
rispondere: "Ciceronianus es, non es christianus".
La stessa teologia cristiana si viene spesso determinando di fronte alle
accuse dei pagani, come risposta alle quali nascono i dogmi dei concilii
ecumenici di questa età.
Comunque, le etichette né li distinguono sicuramente, né dicono tutto su di
loro.
Sicché, per mostrare l'animo dei cristiani citerò, come ho fatto per i
pagani, testi precisi: anch'essi non marginali, ma una costante del loro
atteggiamento.

Nel 202, Tertulliano, avendo sperimentato le persecuzioni,  sogna
sadicamente, nel libro De spectaculis, la punizione dei persecutori nel
finale giudizio di Dio:
 "Che spettacolo immenso allora! Che cosa ammirerò? Di che riderò? Dove
godrò, dove esulterò vedendo tanti re, che si celebravano accolti in cielo,
gemere con lo stesso Giove e i suoi testimoni
nelle tenebre più profonde? E, come loro, i magistrati che perseguitavano il
nome del Signore, struggersi su fiamme più spietate di quelle con cui
avevano incrudelito sui cristiani, insultandoli?".
 Ammira, ride, gode, esulta, come nessun intellettuale pagano si era mai
sognato di fare.

E, un secolo dopo, Lattanzio, nel 316, gode anche lui, sadicamente elencando
nei loro atroci particolari le Morti dei persecutori, tutti finiti male per
l'Ira di Dio (sono titoli di suoi libri), e commenta: "Quelli che avevano
insultato Dio giacciono, quelli che avevano abbattuto il santo tempio
caddero con rovina maggiore, e quelli che avevano scarnificato i giusti,
profusero le loro anime malvagie sotto i colpi celesti e i meritati
tormenti".
Già, i meritati tormenti: non è dunque l'idea in sé dei tormenti che
disturba i cristiani, ma l'idea che siano applicati a loro e non agli altri.

Ed Eusebio, vescovo di Nicomedia e biografo di Costantino, gode nel
prefigurare la vendetta divina: "Così possano perire i nemici di Cristo!".
E Firmico Materno, nel De errore profanarum religionum, così esorta gli
imperatori cristiani a perseguitare i pagani: "La legge del sommo Dio esige
che la Vostra severità perseguiti in ogni maniera il delitto di idolatria",
e sui modi della persecuzione cita il Deuteronomio, che prescrive che se un
fratello o un amico ti spinge all'idolatria, "lo accuserai, e la tua mano
sia la prima a levarsi su di lui per ucciderlo... E anche intere città, se
mai sono còlte in questo peccato, è stabilito che periscano".

E il santo Gerolamo, autore della vulgata del Nuovo testamento, intervenendo
nella polemica sul culto delle pietre (le statue degli dèi) da parte dei
pagani, e delle ossa (le reliquie dei martiri) da parte dei cristiani, usava
nelle sue Lettere questo affettuoso ed elegante linguaggio:
"Vigilanzio apre di nuovo la sua fetida bocca e butta il suo schifosissimo
fiato contro le reliquie dei santi martiri e contro di noi, che le
conserviamo";  perciò piamente suggeriva che il vescovo "lo consegni alla
morte della carne, affinché sia salvo lo spirito..., e che i medici taglino
la lingua... a quel mostro..., pazzo furioso".

E Prudenzio, nel suo Peristephanon, celebrando i martiri cristiani, così fa
parlare la vergine Eulalia durante il processo: "Eccomi, io sono nemica
della vostra religione demoniaca (daemonicis inimica sacris), e ne calpesto
gli idoli sotto i miei piedi"; e quando il pretore le chiede non di
rinunciare al suo dio, ma di rispettare gli dèi degli altri, "freme e sputa
negli occhi al tiranno, poi rovescia i simulacri e calpesta col piede il
farro versato nei turiboli"; e poi, torturata, "canta lietamente", finché la
sua anima vola visibilmente al cielo in forma di colomba, lasciando tutti
sbigottiti.

La sola certezza in questa leggenda dai toni aspramente sadomasochistici è
il disprezzo cristiano verso le altre religioni: e non risulta comunque che
poi qualche pagano, dichiaratosi nemico del demoniaco culto cristiano, sia
stato piamente perdonato.
E a Simmaco, che abbiamo sentito dichiarare l' impossibilità di capire i
grandi misteri della vita per una sola via, un altro santo, Ambrogio,
risponde superbamente: "Ciò che voi ignorate, noi lo
abbiamo conosciuto dalla voce di Dio. E ciò che voi cercate con le vostre
ipotesi (suspiciones), noi lo abbiamo per certo dalla Sapienza di Dio e
dalla Verità".
È, da parte di chi sente di avere ormai vinto, il rifiuto di ogni dialogo e
l'imposizione del dogma;
e la sua conclusione è un secco rifiuto: "Le vostre idee non si accordano
con le nostre", cui seguirà, a differenza di quanto aveva fatto Giuliano, la
chiusura dei templi e la fine di ogni culto pagano.

La stessa intransigenza troviamo nella rilettura ideale della storia di
Roma, sul merito o il demerito degli dèi pagani nelle sue vicende.
Già Arnobio citava l'accusa pagana ai cristiani che "da quando al mondo
cominciò a esserci la gente cristiana, l'orbe terrestre era andato in
rovina"; e abbiamo sentito Simmaco invocare rispetto per la religione che
"aveva giovato a lungo allo Stato" (i cristiani rovesceranno questa accusa,
facendone anzi un cavallo di battaglia).

Tra l'altro, ci fu allora un rifiorire della storiografia pagana, con le
Storie di Ammiano Marcellino, amico di Giuliano, e coi compendi di Eutropio
e Festo o della Historia Augusta, destinati a creare una coscienza romana
nella nuova, ignara, burocrazia bizantina: e vi si accompagnava un rifiorire
della poesia in Claudiano, Rutilio Namaziano e altri, stanca e imitatrice
quanto si vuole,  ma non priva di una sua dignità e di umani affetti.
Ebbene, proprio a quelle accuse, a quell'accenno di Simmaco e a quella
storiografia sembra replicare Agostino, quando nella Città di Dio addita in
tutta la storia di Roma nient'altro che una serie ininterrotta di disastri
dovuti alla impotenza dei suoi falsi dèi.
Affermazione, a dir poco, paradossale, dopo il sacco di Roma del 409, a
opera dei visigoti cristiani: ma per lui quella era stata una vittoria sul
paganesimo.

Non pago di questo, Agostino volle affidare la riscrittura cristiana di
tutta la storia romana al suo discepolo Paolo Orosio, che premurosamente si
accinse al grave compito: "Ai tuoi comandi ho obbedito, o beatissimo padre,
Agostino. Mi avevi comandato di mostrare quanto negli annali dei secoli
passati avessi potuto trovare di grave per le guerre, di corrotto per le
malattie, di triste per la fame, di terribile per i terremoti, di insolito
per le inondazioni, di tremendo per le eruzioni vulcaniche, di feroce per le
cadute di fulmini e della grandine, di miserabile per i parricidii e le
scellerataggini".
Che sadico inventario dei mali del mondo, per dimostrare che la trionfante
Roma pagana, creatrice del più straordinario impero della storia, aveva
subìto sconfitte peggiori di quelle che il desolato impero cristiano stava
soffrendo nei nuovi, sventuratissimi tempi!
Che modo idiota, bisogna pur dirlo, dato che era tale anche per la cultura
di allora, di scrivere la storia come storia degli orrori! Un modo
obnubilato dall'odio teologico, sconosciuto agli storici pagani e a ogni
altra storiografia.

Leggendo questi testi, non sembra davvero che il monoteismo, e tanto meno il
cristianesimo, abbia reso migliori gli uomini.


I CRISTIANISSIMI CONCILII ECUMENICI

Mentre gli intellettuali cristiani manifestavano così la dubbia superiorità
del loro dubbio monoteismo, si veniva consolidando la difficile alleanza tra
potere imperiale e Chiesa cristiana, quale intanto si definiva nei concilii
ecumenici.
Non si possono leggere questi concilii come astratta elaborazione
intellettuale, avulsa dalla realtà circostante:
questi concilii sono incomprensibili senza gli evidenti riferimenti al
contesto del tempo.

I primi concilii ecumenici, cioè di tutta la cristianità (di Nicea nel 325 e
Costantinopoli nel 381, cui seguì quello di Edessa nel 431), che tennero
dietro a una ventina di concilii locali dei secoli precedenti, furono
pesantemente condizionati dalla supervisione imperiale.
Essi stabilirono anzitutto la dottrina, ma anche, al suo riparo, la
posizione della Chiesa al di sopra dei fedeli e, naturalmente, di tutti.
Ma è soprattutto alla polemica pagana che essi intendono rispondere: facendo
delle accuse un
vanto, e trasformandole orgogliosamente in dogmi apertamente irrazionali.

Si sa che non solo i pagani, ma anche molti cristiani, come Ario,
rifiutavano l'assurdità di un uomo-dio e l'identità del Figlio col Padre,
necessaria alla fondazione divina della Chiesa. Ecco allora a Nicea un
Simbolo o Credo che poneva fine alla disputa approvando i dogmi sulla
Trinità divina (qualcosa di simile già in Plotino), fatta di un Dio Padre,
creatore del cielo e della terra; del Figlio unigenito, "generato ma non
fatto", il quale, "incarnato di Spirito Santo e da Maria Vergine, si è fatto
uomo"; e infine dello Spirito Santo, del quale per allora non si disse
niente, sicché più tardi a Costantinopoli si dovette aggiungere che "procede
dal Padre" (senza peraltro definirlo figlio, dato che Cristo è figlio
unico), ma dimenticando di dire che procede anche dal Figlio, sì che si
dovrà provvedervi più tardi dicendo "che procede dall'uno e dall'altro"
(procedenti ab utroque), dirà san Tommaso nel Pange lingua.
E l'aggiunta che lo Spirito "parla per bocca della Chiesa" significava
consacrare un potere che, in quanto disceso non da un uomo, ma da un "vero
dio e vero uomo", è autocratico, anzi teocratico;
 e significava confermare la immunitas del vescovo di Roma, "sottratta alla
possanza dei re, dei principi, dei popoli interi, conoscendosi, in chi vi
siede, rappresentato Cristo Signor nostro,
principe supremo ad ogni foro e ad ogni principato", sancita dal concilio di
Roma di un anno prima.

Era il preludio alla sua infallibilità: la Chiesa si poneva così al di sopra
dei suoi stessi fedeli, come potere teocratico, al pari di quello dell'
Impero.
 Tutte queste teologiche insensatezze, frutto di compromessi raggiunti
attraverso conflitti sanguinosi, e imposte come dogmi, valsero comunque a
definire quell'ambiguo sistema di convivenza conflittuale di due poteri,
impero e papato, cioè Stato e Chiesa, incerto tra cesaropapismo e teocrazia,
ignoto al mondo antico, e che segnò tutto il Medioevo e pesa
ancor oggi sulla nostra vita politica.


LA CONDANNA DELLA GIOIA DI VIVERE

Se tali erano la durezza dei grandi intellettuali cristiani e
l'intransigenza dogmatica della Chiesa contro tutta la tradizione pagana,
occorre dire che altrettanto duro fu anche l'orientamento dell'impero ormai
cristianizzatosi.
Dalla iniziale tolleranza costantiniana, pur solo formalmente dichiarata, si
passò presto a una intolleranza peggiore di quella del potere imperiale
pagano.

In questo processo c'è un aspetto tanto vistoso quanto di solito trascurato:
che esso si rivolge contro le manifestazioni non solo della vita culturale
ma anche, e forse più, della vita ludica, fisica e intellettuale, cioè
circensi e teatri.
Può sembrare un paradosso, ma la polemica cristiana ha insistito in forme
maniacali contro la vita ludica, dando fra l'altro luogo a un'altra
inaccettabile vulgata storiografica, cioè che i romani altro non facessero
che darsi a teatri e circensi, e che nell'eccesso dei circensi fosse la
principale causa della caduta dell'impero.
In realtà, la società politeistica pagana aveva mostrato una totale coerenza
tra l'ideologia e il
costume di vita: la vita ludica era mimesi gioiosa della vita impegnata
delle armi e della cultura; teatro e circensi, ludi dell'uno e dell'altro
genere (ludi utriusque generis), intellettuale e fisico, erano atti
religiosi, per il culto degli dèi e il piacere degli uomini (cultus deorum
et hominum voluptatis causa).
Per questo, cosa lontanissima dalla cultura di oggi, Varrone ne aveva
parlato nelle Antichità divine, e ora Macrobio confermava, tra l'altro, che
"i culti si celebrano quando si fanno ludi in
onore degli dèi".
Ebbene, proprio per questo, non solo gran parte della polemica cristiana si
rivolge contro i ludi, ma anche gli imperatori si accaniscono contro di
essi: la cancellazione dei ludi è una persecuzione
religiosa.

Già alcuni concilii locali avevano fulminato pene gravissime contro quanti
"nei ludi dei circhi, dei teatri e delle arene si scomponessero nel guidar
cocchi e atteggiarsi da buffone".
A queste condanne della Chiesa si aggiunsero in modo risolutivo, a fine
secolo, quelle dell'impero:
 gli imperatori Valentiniano, Arcadio, Teodosio e Onorio, nel 392, 394 e
399, rovesciando la tolleranza costantiniana e distorcendo la lezione morale
di Giuliano, proibirono tutte le  manifestazioni pagane, intellettuali e
fisiche, nei templi, nei teatri e nei circhi.
E pochi anni dopo, nel 409, l' imperatore d'Oriente, Teodosio II, ribadiva
la condanna con le stesse e anche più precise parole: "Di domenica, primo
giorno della settimana, e a Natale, Pasqua e Quinquagesima, è proibito ogni
divertimento dei teatri e dei circensi, tutte le menti dei cristiani e dei
fedeli siano occupate nei culti di Dio".
Si badi, le menti: dalla politeistica e pagana libertà di culto, si è ormai
passati alla monoteistica e cristiana costrizione non solo dei comportamenti
(i mores), ma anche delle menti (la doctrina).
Si doveva essere cristiani per forza, pensare come volevano la Chiesa e
l'impero.
Con queste, che ad Agostino parevano "misericordiosissime leggi",
minaccianti punizioni divine ed umane, si attuava una cosa nuova e tremenda,
ignota al politeismo pagano:
si creava un dualismo dei poteri, uno dei quali addetto al dominio sulle
menti.

Paradossalmente, tutto ciò si manifestava nella polemica contro la vita
ludica, mimesi gioiosa della vita reale.
Eppure, anche su questo punto c'è una vulgata storiografica, che "da queste
feste i cristiani si tengono lontani per ragioni di ordine morale".
Che appagante immaginazione storica, anche questa!
I pagani empi e tutti dediti ai teatri e al circo, i cristiani pii e
riservati in chiesa!
Fatto sta che le proibizioni imperiali la smentiscono:
non si proibisce se non ciò che si suole fare, e in generale la prima
lettura che si dovrebbe fare delle leggi nella storia, è che ci informano
sul contrario di quello che prescrivono o proibiscono:
 in particolare, queste leggi cento volte ripetute contro teatri e circensi
ci mostrano come esse fossero normalmente trasgredite dagli stessi
cristiani.
Del resto, sono più volte gli stessi padri della Chiesa a mostrarci i
cristiani impazzare e
sputtaneggiare (bacchari et moechari) nei teatri e nei circhi.
E Agostino ci narra che, dopo le grandi persecuzioni durante le quali molti
cristiani erano ricaduti, lapsi, nel paganesimo, molti che sarebbero voluti
tornare cristiani "rimpiangevano queste pericolosissime e tuttavia
antichissime voluttà".

Che fare, allora? Semplice: "Parve opportuno celebrare altri giorni festivi
in onore dei santi e dei martiri, non con tale sacrilegio quantunque con
simile lusso".
Insomma, si cambiò il nome delle divinità cui dedicare le "voluttà":
ma così si perse l'antica coerenza  tra ideologia e vita, si tolse ai ludi
il loro valore religioso di mimesi della vita seria, che era l 'altissima
virtù del paganesimo.
D'ora in poi, tra ludi e religione, tra svaghi e morale si instaura una
contraddizione insanabile, e ne risulterà un inguaribile spirito di
ipocrisia, un divaricarsi tra predica e pratica, che accompagnerà tutta la
civiltà cristiana.

Più tardi, negli anni intorno alla caduta dell'impero d'Occidente, Salviano,
vescovo di Marsiglia, tornerà su questo tema definendo, con amaro gioco di
parole, "i pubblici ludi ludibrio della nostra vita"; e, dando ai circensi
la colpa della decadenza di Roma (confondeva, semmai, la causa con l'
effetto), aggiungerà:
"Tutto il mondo romano è misero e lussurioso. Chi, domando, è povero e
scherza; chi, aspettando la prigionia, pensa al circo; chi teme la morte e
ride? Noi anche nel timore della prigionia giochiamo e, posti nel timore
della morte, ridiamo. Potresti credere che tutto il popolo romano si sia
saturato di erbe velenose: muore e ride".
Questa strana idea cristiana di una Roma che muore ridendo è un'altra
vulgata storiografica,
seriosamente ripresa anche da tanta moderna storiografia, a cominciare dal
grande Gregorovius.  Eppure, come non vedere che nei ludi, mimesi gioiosa
della virtus romana, si esprimeva la nostalgia dell'antica grandezza?


L' ODIO TEOLOGICO E I SUOI GUASTI

La polemica infuria ancora contro questa Roma prostrata.
Agostino, vissuto nel momento in cui Teodosio celebrava i fasti della sua
intolleranza, esultava perché l'imperatore "dall'inizio del suo stesso
impero non cessò di aiutare la Chiesa travagliata per mezzo delle sue
giustissime e misericordiosissime leggi contro gli empi":
dove gli avversari sono tali perché empi, e diventa misericordia il
minacciare pene perfino alle
coscienze.
Ma, ad additare l'incoerenza delle accuse cristiane, valga la polemica di
Agostino sulla pena di morte.
I pagani, diceva, sogliono uccidere, mentre "i cristiani non uccidono
nessuno".
Peccato che subito dopo aggiungeva una tremenda riserva, che ricorda le
minacce di Teodosio e
risuona tanto più torva dopo le tremende stragi gotiche di Roma, che lui e i
suoi cristiani avevano rimpianto che non fossero state totali, una shoah,
contro i pagani: "non uccidono nessuno, eccetto quelli che Dio comanda di
uccidere" (exceptis his, quos Deus occidi iubet).
E, a scanso di equivoci, ripeteva e precisava: "Eccetto dunque quelli che o
una legge giusta
generaliter o la stessa fonte della giustizia, Dio, specialiter comanda di
uccidere...".
 E che altro è questo presunto comando di Dio, se non l' arbitrio di quelli
che si autoproclamano suoi rappresentanti in terra?

Questo sadismo teologico, che uccide negando di uccidere, è cosa
esclusivamente cristiana:
si ricordi il decreto romano, citato da Plinio il vecchio, ne homo
immolaretur.
Ma in Agostino c'è anche dell'altro.
Quante volte si è scritto che il cristianesimo ha abolito la schiavitù?
 Ebbene, eccolo ancora: "Si comprende che la schiavitù è imposta a buon
diritto al peccatore...
La prima causa della schiavitù è il peccato".
E il peccato, secondo lui e comunque da Teodosio in poi, è anzitutto il
credere in un dio diverso da quello predicato dal beatissimo apostolo
Pietro, e imposto a tutti dall'imperatore.
E pensare che già Seneca aveva scritto, e Macrobio ripetuto:
"Ma perché tanta ingiustificata avversione per gli schiavi? Come se non
fossero uguali a te... Sono schiavi, anzi uomini. Sono schiavi, anzi
compagni di servitù, se rifletti che la sorte esercita sugli uni e sugli
altri il suo potere in ugual misura".
Agostino è stato uno dei grandi padri della Chiesa, che da lui ha appreso
per secoli le ragioni della sua fede e dei suoi comportamenti, anche su
queste due questioni di principio, quali la pena di morte e la schiavitù.

E se, a riprova, mi è qui concesso un diretto riferimento a quell'oggi, che
ho cercato di dimostrare nato in quel IV secolo, ecco il nuovo Catechismo
della Chiesa cattolica, dell'11 ottobre 1992, sancire il diritto e il dovere
della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla
gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di
morte:
una sentenza pubblicata nel fervore delle iniziative mondiali per abolirla.
E sarebbe poco, se poi non si intendesse giustificare questa tesi spiegando
che "nei tempi passati, da parte delle autorità legittime si è fatto
comunemente ricorso a pratiche crudeli per salvaguardare la legge e l'
ordine, spesso senza protesta dei pastori della Chiesa, i quali nei loro
propri tribunali hanno essi stessi adottato le prescrizioni del diritto
romano sulla tortura".
Come dire che la colpa è del diritto romano: eppure la Chiesa, mentre lo
assumeva tranquillamente per questa parte omicida, ne stava cancellando ogni
traccia nella tradizione culturale e nella sua mimesi ludica.
Ma il paragrafo del Catechismo continua: "Accanto a tali fatti deplorevoli,
però, la Chiesa ha sempre insegnato il dovere della clemenza e della
misericordia:  ha vietato al clero di versare il sangue": certo, lasciandolo
materialmente versare per secoli, su sua indicazione e sotto la sua
supervisione, al braccio secolare dello Stato, e addirittura santificandolo
come auto da fé, atto di fede.

E a proposito del diritto romano, come non ricordare che il cristianesimo
dove non ha potuto distruggere tutto ciò che era pagano, se lo è
accaparrato?
Giustiniano, questo imperatore che, secondo Procopio, era "praticamente
analfabeta, cosa che non si era mai vista nell'impero romano..., e che nella
lingua, nell'aspetto esterno e nella mentalità si
comportava come un barbaro", ordinata la raccolta delle leggi romane (c'è
forse qualcosa di più pagano?) la intitolerà al nome di Cristo:
Prooemium de Confirmatione Institutionum, In nomine Domini nostri Jesu
Christi...".
Che impudente falsificazione storica!
Il cristianesimo o cancella o si accaparra quanto di vitale c'è nel
paganesimo: accoglie l'eredità delle sue leggi, proibisce o santifica i suoi
ludi, trasforma i templi in chiese, come in "Santa Maria sopra Minerva",
sostituisce gli dèi con angeli e santi, chiama il papa Pontefice Massimo,
occupa la sua sede, fuori della quale e senza la quale il vescovo di Roma
non sarebbe papa.

Certo, la società imperiale romana, che già ai tempi di Livio "soffriva per
la sua stessa grandezza", era ormai giunta al culmine di una gloriosa e
tremenda parabola storica.
Eppure, essa ha conservato agli occhi della storia un suo fascino, non solo
per la sua grandezza, ma anche per una virtù che la fece apparir bella agli
uomini del Rinascimento, e che le successive
società cristiane hanno per sempre perduta:
la coerenza tra l'ideologia e il costume di vita, tra la doctrina e i mores.


PER UN NUOVO POLITEISMO LAICO

 Concederò volentieri che questo mia critica della vulgata storiografica non
è tutta la storia né del paganesimo né del cristianesimo.
È tuttavia un aspetto non confutabile della loro storia, che ho documentato
con atti e parole non occasionali ma coerenti dei loro protagonisti: se non
lo si assume, non si capisce niente.
So bene, d'altra parte, che questo cristianesimo intollerante e ipocrita ha
tuttavia rappresentato un momento alto della storia umana, vivendo al suo
interno aspre contraddizioni (il bene e il male si annidano dappertutto):
so che il suo "dare a Dio quel che è di Dio" può aver rappresentato una
rivendicazione di libertà delle coscienze; so che in suo nome, accanto alle
infamie del potere, ci sono le opere oneste e gli affetti profondi di tante
persone che si sono proclamate cristiane.
Tuttavia, è pur vero che esso (soprattutto in ciò che fu in quel
determinante secolo IV) non è in grado di evocare alcuna coerente
immaginazione storica di bellezza o di grandiosità, come la evocano l'antica
Grecia e l'antica Roma.
Certo è che il cristianesimo non ha migliorato il mondo, non ha reso gli
uomini migliori e, per quel tanto che può avere avuto di intimamente
sovvertitore, diciamo pure di rivoluzionario, è stato, come sempre nella
storia, una rivoluzione accaparrata da un nuovo potere.
È così che la storia fa sempre un passo avanti e uno indietro: un passo
avanti nello sviluppo, uno indietro nelle sue contraddizioni.

Vorrei concludere auspicando quello che - riecheggiando il nouveau
christianisme socialista di Saint-Simon di due secoli fa - potrei chiamare
un nuovo paganesimo, o un nuovo politeismo laico: cioè un pluralismo in cui,
credendo ognuno quello che vuole, come per Costantino e Simmaco, nessuno
pretenda di imporre all'altro, con la forza del potere, la propria parola
come parola di Dio. Che è la vera, anzi la sola "bestemmia contro lo
Spirito": il solo spirito che positivamente conosciamo, quello dell'uomo.

La lotta contro questa imposizione dura da un millennio e mezzo: ma è stata,
appunto, una lotta. La storia d'Europa è storia non tanto del cristianesimo,
quanto della perenne lotta per la liberazione degli uomini dall'imposizione
del cristianesimo come potere "teodosiano" sulle coscienze.

Mario Alighiero Manacorda.

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Fine - l'articolo sopra riprodotto e'completo.
Si trova anche in :
  http://www.letterainternazionale.it/articoli/manacorda71.htm,

Si consiglia una occhiata a tutto l'archivio, molto interessante.
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Claudio Simeoni
Meccanico
Apprendista Stregone
Guardiano dell'Anticristo

P.le Parmesan, 8

30175 Marghera – Venezia

tel. 041933185

e-mail: claudiosimeoni@libero.it

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