FEDERAZIONE PAGANA
presentiamo
DAL POLITEISMO AL MONOTEISMO
un articolo di
Mario Alighiero Manacorda
Presentiamo questo articolo nella prospettiva della fondazione della Comunità Europea e della sua Costituzione.
Ricordando come il dio dei cristiani, che i cristiani vorrebbero inserito nella Costituzione Europea, altro non sia che il simbolo dei CAMPI DI STERMIO, il simbolo e la giustificazione dello STUPRO DEI BAMBINI, la giustificazione storica per ogni STRAGISMO che accettato come fare divino nell'attività del DILUVIO UNIVERSALE, ha giustificato la strage di SODOMA e GOMORRA per i capricci di un dio assassino finendo con l'ordine del pazzo di Nazareth di sgozzare chiunque non si metta in ginocchio. Le chiese cristiane e quella cattolica in particolare portano su di sé la responsabilità giuridica e religiosa della manifestazione del loro dio nei Sistemi Sociali Umani con DUE MILIARDI di persone annientate e distrutte! Cattolicesimo significa SCHIAVISMO! Cattolicesimo significa SPACCIO DI EROINA! Cattolicesimo significa STUPRO DI BAMBINI! Cattolicesimo significa FOBIE SESSUALI! Cattolicesimo significa DIFFUSIONE DELL'AIDS! Cattolicesimo significa STRAGISMO AD OPERA DEI MISSIONARI (il Ruanda è solo uno degli ultimi esempi!). Esaltare il dio dei cristiani, significa esaltare il diritto di torturare e distruggere chi non si può difendere!
E' QUESTA L'EUROPA CHE SI INTENDE COSTRUIRE?
Per questo motivo riteniamo interessante presentare un articolo che ci ricorda alcuni passaggi importanti che portarono alla nascita dell'orrore cristiano!
Claudio Simeoni
Meccanico
Apprendista Stregone
Guardianod ell'Anticristo
DAL POLITEISMO AL MONOTEISMO
di Mario Alighiero Manacorda
Un articolo che è lo
sviluppo della relazione introduttiva al Convegno su:
"2004:
una Costituzione laica per l'Europa",
tenutosi nella
sala della Protomoteca in Campidoglio a Roma,
sabato 9 febbraio
2002,
per iniziativa della "Società laica e
plurale".
DAL POLITEISMO AL
MONOTEISMO
Ogni volta che salgo qui in Campidoglio,
mi piace dare uno sguardo, oltre
che a Marco Aurelio, l'imperatore
filosofo, ritratto a cavallo come
guerriero ma col braccio levato
in un ampio gesto di pace, anche ai musei
capitolini, che ospitano
il monumento sepolcrale di due tra gli ultimi
rappresentanti del
paganesimo, il console Pretestato e la moglie Paolina,
morti nel
384 e 385 dell'era volgare.
Nel monumento sepolcrale i due coniugi
si rivolgono a vicenda alcuni versi
scolpiti nel marmo, in cui lui
esalta lei, "dedita ai templi e amica dei
Numi, pudica,
fedele, pura nella mente e nel corpo, benigna a tutti, utile
ai
Penati"; e lei esalta lui, che nei dodici dèi del culto
romano vedeva il
numen multiplex del dio unico, il Sole.
Era
lo stesso dio unico che anche Giuliano l'Apostata (la famiglia con
lui
imparentata dei Ciconii faceva anch'essa parte del circolo dei
Saturnalia)
aveva venerato come immagine di quel Dio padre, Zeus
pater, a cui chiedeva
di mostrargli "la via che porta su,
verso di te".
Nella loro casa Macrobio immagina nei
Saturnalia che in liberalia colloquia,
alternando, come nel
Simposio di Platone, seriae disputationes e qualche
sermo
iucundior, si rivisitasse la tradizione culturale "pagana".
Tali
erano questi ultimi "pagani".
Parlerò
del loro secolo, ma intendendo fare un discorso attuale, perché
in
quello si svolse e si risolse il conflitto tra "paganesimo"
(una parola per
me positiva, che userò da ora in poi senza
virgolette) e cristianesimo.
Nasce infatti allora, grazie al
connubio col potere imperiale nella sua fase
più
autocratica, ereditandone la sede e in parte il potere, la forma
del
cristianesimo come religione rivelata, dogmatica e
intollerante, che fa capo
al papato romano; nasce allora
l'antagonismo dei due poteri, ignoto al mondo
classico, che,
attraversando tutto il Medioevo e l'età moderna, è
ancora
oggi presente come rapporto conflittuale tra Stato e
Chiesa.
IL BREVE SECOLO IV
Mi
sia consentito rievocare brevemente i dati minimi della storia di
questo
secolo breve, entro il quale inquadrare gli elementi
della grande battaglia
ideale.
Il secolo si apre con la
vittoria di Costantino contro Massenzio a Ponte
Milvio, nel 312,
quando il cristianesimo, religione di pace, innalzò contro
il
labaro imperiale di Ercole la croce di Cristo come vessillo di
guerra:
In hoc signo vinces!
Possiamo forse ignorare che
l'esercito vincitore non era certo cristiano,
dato che fino al
giorno prima non sapeva nulla della visione cristiana del
suo
comandante?
E che ambedue gli eserciti erano composti di
mercenari?
Al momento del congedo i veterani acclameranno
Costantino col grido rituale:
"Dei te nobis servent", al
plurale: e solo due secoli dopo il Codice di
Giustiniano lo
correggerà al singolare.
Come è noto, subito
dopo la vittoria, nel 313, Costantino promulgò il suo
famoso
editto:
non cristiano, si badi, ma pagano, almeno nella forma, e
perciò
politeistico, "di tolleranza";
ma
presto il suo esito pratico sarà l' intolleranza, una
religione imposta
a forza, grazie all'alleanza tra potere
imperiale ed ecclesiastico.
Poi, nel 330, trasferiva la capitale
dell'impero a Costantinopoli, lasciando
quella Roma che era la
roccaforte dell' aristocrazia senatoria pagana, e
dove si
affacciava nel papato un potere alleato ma rivale.
Intanto, non a
caso solo ora, sotto l'egida del potere imperiale, nei primi
concilii
ecumenici di Nicea nel 325 e di Costantinopoli nel 381,
il
cristianesimo definiva la sua teologia e la sua
struttura
autocratica.
A questo consolidarsi del
cristianesimo come potere si oppose, tra il 361 e
il 364 il breve
tentativo di Giuliano "l'Apostata", cui dopo la
nuova
repressione cristiana seguì, qui in Roma ma anche in
Atene e Alessandria,
una breve rinascita pagana, che ebbe nel
circolo romano dei Saturnalia una
sua alta espressione.
Ma nel
396, mentre la repressione imperiale si esprimeva in una serie
di
duri editti, nella battaglia sul fiume Frigido, ai confini
nord-orientali
d'Italia, il "pacifico" cristianesimo con
Teodosio
vinceva ancora una volta in guerra;
e nel 409, il
sacco di Roma a opera dei visigoti cristiani di Alarico
metteva
l'ultimo sigillo.
Questi gli eventi essenziali di quel secolo,
decisivo anche per noi: e con
millenni di storiografia,
archeologia, antropologia culturale, sociologia
eccetera, ancora
non sappiamo spiegarci compiutamente perché il
cristianesimo
abbia vinto, e perché in guerra.
Scartando, ovviamente, la
vacua ipotesi dell'intervento divino con le sue
miracolose visioni
e i
massacri in guerra, dobbiamo domandarci: quali furono queste
cagioni?
Forse, entro le complesse questioni socio-economiche
della crisi generale
dell' impero, la forza di attrazione della
iniziale connotazione
rivoluzionaria del cristianesimo?
O, di
là dalla casualità delle guerre, la sempre più
profonda divisione tra
intellettuali e popolo, che lasciava gli
intellettuali pagani in una
solitaria difesa della tradizione,
dall' apparenza conservatrice?
O una superiorità culturale
e morale del monoteismo cristiano sul politeismo
pagano?
DAL
MITO AL DOGMA
Cerchiamo di capire come si svolse la
battaglia delle idee in quel decisivo
quarto secolo.
Una
vulgata storiografica, che ancora rispecchia le idee dei
vincitori
cristiani, continua a tramandarci un'immagine
dominante:
da una parte politeismo, dall'altra monoteismo:
romani
politeisti e intolleranti, cristiani monoteisti e tolleranti;
romani
persecutori e cristiani perseguitati;
romani dediti ai circensi e
cristiani dediti alle chiese, gli uni feroci e
gli altri miti, e
così via.
Che gratificante immaginazione storica! Ma
è credibile?
In realtà questa vulgata è da
rovesciare:
ma per farlo dobbiamo cominciare dal chiarirci le idee
su politeismo e
monoteismo.
Riprendendo la
paradossale definizione delle idee platoniche che Croce
riferiva
di aver ascoltato da un vecchio filosofo napoletano,
potremmo
suggerire una cautela preliminare: non fare di politeismo
e monoteismo dei
"caci cavalli appisi", cioè non
elevare questi nomi o astrazioni a enti,
dando loro la consistenza
materiale di cose reali, appese sopra le nostre
teste.
Questi
nomi o etichette altro non sono che allusioni, di cui ci serviamo
in
ogni campo della ricerca culturale, presupponendo un comune
loro significato
nelle menti dei nostri interlocutori.
Ma guai
a dimenticare che sotto di essi vivono, in determinate
condizioni
sociali e culturali, persone vive, diverse tra loro, e
in sé
contraddittorie; e guai ad attribuire loro una
connotazione positiva o
negativa.
Tuttavia continueremo a
usarli, magari tra virgolette ideali, purché con
questa
consapevolezza.
Si può dire in sintesi che il
politeismo rappresenta una concezione
analitica, il monoteismo una
concezione sintetica dell'universa natura,
anche se né
l'uno né l'altro si esauriscono in queste forme.
Il
politeismo, infatti, si presenta a sua volta in un duplice
aspetto:
da una parte come culto di una molteplicità di
presenze o forze naturali,
cielo e corpi celesti, terra e mari,
monti, laghi, fiumi, sorgenti, boschi,
e le manifestazioni
atmosferiche e così via, premesse della nostra vita,
concepite
come manifestazioni divine; dall'altra, come molteplicità
diffusa
di culti etnici monoteistici, in cui ogni popolo venera i
propri progenitori
o fondatori o eroi eponimi, in perenne
confronto, competitivo o meno, tra
loro.
E anche il monoteismo
presenta una sua duplice natura, da una parte come
rinvio, di là
dalla moltitudine delle manifestazioni naturali, a un loro
principio
unico; dall'altra, come una forma intollerante del
politeismo
diffuso, ma "geloso" (la definizione è
di Mosè), per cui il proprio dio
appare a ciascuno
superiore agli altri, quindi l'unico vero.
In questo caso,
la superiorità intellettuale e morale, nelle menti
degli
uomini reali, dell'una o dell'altra versione della
religione, quella
politeistica o quella monoteistica, sarebbe
tutta da dimostrare: né,
d'altronde, si scriverebbe così
la storia della filosofia.
Tipico, in concreto, l'esempio
dell'incerto procedere degli ebrei tra
politeismo e
monoteismo.
Sì, c'è nella Genesi la presenza di un
dio unico, ma talmente confusa che in
realtà si vedono due
dèi diversissimi, l'uno creatore per la forza della
parola,
l'altro un signore di terre aride, che attende chi gliele irrighi
e
coltivi.
Ma è poi politeista il patriarca Abramo che
si confronta con gli dèi di
altri re, ricevendone la
benedizione e pagando loro le decime.
E tra gli ebrei
compaiono perfino piccoli dèi etnici, lari o penati, come
tra
Labano e Giacobbe, zio e nipote, che dichiarano:
"Il dio di
Abramo e il dio di Nacor siano giudici tra noi".
E Mosè,
dovendo dare alla "masnada promiscua e raccogliticcia",
fuggita con
lui dall'Egitto, un dio etnico e "geloso"
che ne facesse un popolo, impone,
con una guerra civile, il
precetto "Non avrai altro dio fuori che me", che è
tutto
meno che monoteistico.
E durante la monarchia il culto del dio
unico - evidente proiezione in cielo
del monarca terreno - si
affermerà con le armi nella lotta contro i culti
delle
alture, dove si veneravano gli dei etnici dei
clan.
E l'ambiguo
processo dal politeismo al monoteismo si compirà al
ritorno
dalla cattività babilonese, quando, con Esdra e
Neemia, sotto l' influsso
del dio unico dei persiani di Ciro,
Jahvè sarà insieme il dio unico del
cielo e della
terra e il dio geloso del popolo ebreo: e, purtroppo, sarà
anche
l'emblema di un razzismo teologico che spingerà a ripudiare
mogli e
figli dei connubi babilonesi.
Come per gli
ebrei, politeismo e monoteismo appaiono sempre
variamente
intrecciati, e possono mostrarsi ora tolleranti ora
intolleranti.
Resta comunque che, in generale e fuori dai
momenti conflittuali, il
politeismo è convivenza di
più dèi, e perciò tendenzialmente
tolleranza
religiosa e accoglienza di culti altrui; il monoteismo
è troppo spesso un
culto geloso e magari aggressivo (o
missionario).
In che modo, allora, una società politeistica
come quella romana, abituata
ad accogliere nel proprio Pantheon
tutti gli dèi, sarebbe stata
intollerante?
E in che
modo, invece, un culto monoteistico avrebbe rappresentato una nuova
e
più profonda libertà?
Venendo a Roma, la
sua storia mostra un ininterrotto susseguirsi di quelle
che
Cicerone chiamava "insitivae doctrinae", cioè
culture o religioni
trapiantate o importate, a cominciare dalla
etrusca e dalla greca: insitiva
la doctrina, romani i mores,
diceva.
Anche il cristianesimo era una insitiva doctrina, un
mito straniero,
peregrinus: che però fu respinto.
Perché diverso dagli altri?
E in che cosa? Per il suo
monoteismo, per i costumi, o per che altro?
Il paganesimo
ellenistico-romano, almeno al livello colto degli
intellettuali,
tende sempre più, magari anche sotto la spinta cristiana,
ad
essere altrettanto monoteistico; mentre a livello popolare, e
non solo, il
cristianesimo appare fin troppo politeistico.
Pagani
e cristiani non si differenziavano molto, anche perché non
c'era, se
non nell'oleografia, un
tipo unico dell'uno e
dell'altro, e molti esitavano nel decidere quale nome
o etichetta
darsi, e magari si ricredevano.
E gli stessi cristiani si
dividevano in sètte, definite a vicenda eretiche,
che si
combattevano con
ferocia pari a quella usata contro i pagani.
E
credevano anche loro nella reale esistenza degli dèì
pagani, sia pure come
idoli o demoni:
Tertulliano definiva il
circo tempio di tutti i demoni, e di fronte a questa
mentalità
il più riflessivo Cipriano dové scrivere un libro per
spiegare che
gli idoli non esistono, Quod idola non sint.
E
allora, dov'era la diversità?
Sembra a me che la
diversità tra pagani e cristiani stia non tanto
nell'
opposizione tra i due "caci cavalli appisi" del
politeismo e del monoteismo,
quanto in un diverso atteggiamento
mentale nei riguardi della religione,
dell'uno o dell'altro
tipo.
Ciò che per i pagani è mito, per i cristiani è
dogma :
e qui è il discrimine tra tolleranza e
intolleranza. Per dirla con Platone,
il mito, cui si ricorre
quando la ragione non basti a spiegare le cose, è
una
immaginazione plausibile, che comunque lascia aperta la ricerca,
anche
se poi "solo Dio sa se questa immaginazione risponda a
verità".
Questo gli intellettuali pagani lo sanno
bene: Giuliano l'Apostata,
discutendo con Eraclio, spiega che i
miti "vanno intesi in misura più che
umana, non
credendo semplicemente ma indagandone il significato riposto";
e
del suo stesso discorso lascia incerto se "sia mito o
discorso vero";
e si mostra addirittura insofferente di dover
ricorrere al mito:
"Costringi anche me a farmi inventore di
miti".
Il mito è fantasia e ricerca, e perciò
tolleranza;
il dogma, ignoto alla tradizione classica, è
immaginazione cristallizzata in
verità assoluta, è
preclusione di ogni fantasia, e perciò intolleranza.
Ma i
cristiani trasformano il mito in verità, la verità in
dogma, e il dogma
in
imposizione a tutti con la forza del
potere.
È questa, storicamente, la differenza essenziale
tra paganesimo e
cristianesimo.
LA
TOLLERANZA POLITEISTICA DEI PAGANI
Tollerante era
la religiosità romana: e lo mostrerò con le parole dei
suoi
protagonisti.
Comincerò anzi da tre testimonianze
risalenti al III e al II secolo a.C.,
provenienti dagli stessi
romani, dai greci, e dagli ebrei.
Se è vero che
in Roma, come presso tutti i popoli, non mancarono sacrifici
umani
in nome della religione, come quelli delle vestali sacrificate per
le
loro inadempienze rispetto al rito, è pur vero quanto ci
narra Plinio il
vecchio, che nel 287 a.C. i romani, primi tra
tutti i popoli, nell' emendare
l'antica legge delle XII Tavole,
abolirono "quei sacrifici mostruosi nei
quali era considerato
cosa religiosissima uccidere un uomo", sancendo "che
nessuno
fosse immolato" (ne homo immolaretur), cioè condannato a
morte per
motivi di religione.
Un grande principio, mai
rispettato dal cristianesimo dalla sua ascesa al
potere in questo
IV secolo fino a ieri, quando il potere statale gli è
stato
finalmente tolto.
E anche più chiare sullo spirito
di tolleranza dei romani le testimonianze
greche ed ebraiche.
Gli
ambasciatori della Locride, teste Livio, li onorarono perché
"non solo
veneravano i loro
dèi, ma accoglievano e
veneravano con anche maggiori onori gli dèi degli
altri".
E
gli ebrei, nei due libri dei Maccabei, deuterocanonici
ma
storiograficamente di grande interesse, li ammiravano non solo
per la loro
potenza, ma anche "perché accordano
amicizia ai popoli, e non c'è in loro né
invidia né
gelosia": cosa che, detta da cultori di un dio "geloso",
si
riferisce chiaramente alla religione.
Ma è da dire
che, in una città che Livio definiva
"religiosissima"
soprattutto nei momenti duri delle
guerre, in generale gli intellettuali
romani furono, semmai,
piuttosto scettici o indifferenti:
consideravano la religione un
insieme di miti tradizionali da rispettare
come la propria
irrinunciabile eredità culturale, ma da ripensare in
privato
liberamente.
Si pensi, come esempi del loro
atteggiamento, all'epicureo Lucrezio, il
quale cominciava il suo
poema con la stupenda invocazione a Venere, insieme
"genitrice
degli Eneadi" e immagine della rigogliosa natura, ma
denunciava
poi ogni mentalità religiosa, al punto di
esclamare:
"Quanti mali la religione poté
persuadere!";
e laicamente pensava: "Dio è
che il mortale aiuti il mortale, e questa è la
via verso
l'eterna gloria". Si pensi al sentire panteistico di Virgilio,
col
suo evocare lo Spiritus vivificante e la mens che "diffusa
per le membra,
agita l'intera mole e si confonde con gran
corpo".
O a Ovidio, che all'inizio del gran poema sulle
Metamorfosi, capolavoro del
politeismo come fantasiosa lettura
analitica della natura, ripercorre i due
miti orientali delle
origini con formulazioni identiche a quelle della
Genesi biblica,
ma segnandone apertamente la diversità:
"Sia vero
questo racconto o l'altro".
E qui c'è da domandarsi:
ma perché ci siamo dimenticati di Ovidio e abbiamo
voluto
ricordare soltanto quel grandioso ma stupido mito della Genesi,
e
farne un dogma?
E si pensi poi a Seneca e alla sua
riflessione morale, alta indagine
interiore della coscienza, che
gli
stessi cristiani vollero accaparrarsi.
Semmai, il limite di
questi atteggiamenti è che segnalano una divisione
tra
intellettuali e popolo, che sarà non ultima cagione
della sconfitta del
paganesimo.
Ma, per venire ad
aspetti più concreti sulla diversità tra pagani
e
cristiani, ecco Cicerone disposto a credere negli dèi e
in un cielo per le
anime grandi (si quis piorum manibus locus...),
che non credeva però negli
aruspici.
E Livio, un grande
conservatore, che nella sua storia registrava
attentamente le
manifestazioni religiose in occasione di guerre e di ludi, e
di
fronte all'indifferentismo dei suoi tempi dichiarava:
"A
me, mentre scrivo di queste cose vetuste, non so come, l'animo mi si
fa
antico, e mi forza a ritenere degne di esser riferite nei miei
annali le
cose che uomini saggissimi intesero venerare
pubblicamente".
Religiosità, dunque, solo in quanto
rispetto per la tradizione.
Perciò era loro incomprensibile
il settarismo (oggi diremmo fondamentalismo)
giudaico e cristiano,
una superstitio.
Plinio il vecchio, accomunando la religione di
Mosè alle "sètte magiche",
parlava degli
ebrei come di "un popolo insigne per il suo disprezzo verso
gli
dèi";
Svetonio di "una razza di gente di una
nuova e malefica superstizione";
Tacito di "un popolo
incline alla superstizione e contrario alle religioni",
che
"nella sua ostinazione religiosa e nel suo odio accanito verso
tutti...
considera empio tutto ciò che da noi è
sacro...
disprezza gli dèi e ha a vile la
patria".
Dove patria significa ormai quell'impero che, ai
tempi di Pretestato,
Rutilio Namaziano esalterà dicendo,
rivolto a Roma:
"Hai dato a genti diverse una patria comune"
(Fecisti patriam diversis
gentibus unam).
Ciò che appare
intollerabile ai pagani è l' intolleranza degli ebrei e
dei
cristiani.
E questi loro giudizi ci saranno ampiamente
confermati dagli stessi
cristiani, che se ne faranno anzi un
vanto.
Più tardi, la battaglia delle idee tra pagani e
cristiani ci è testimoniata
egualmente dagli uni e dagli
altri: sia dai neoplatonici come Plotino e
Porfirio, che dai
cristiani Tertulliano e poi Lattanzio e Arnobio, i quali
riferiscono
l'accusa rivolta dai pagani ai cristiani, di "venerare un
uomo,
per di più torturato e crocifisso da uomini",
di "sostenere che un essere
nato uomo e morto in croce
era un dio", di praticare nell'eucarestia, in cui
il corpo
mangiato preserverebbe l'anima nella vita eterna, un
rito
cannibalico, non giustificato nemmeno dalla sua intenzione
mitologica o
allegorica.
E dai pagani, come ricorda Arnobio,
veniva la domanda: "Se vi sta a cuore il
culto divino, perché
non venerate con noi gli altri dèi e non praticate in
comune
i riti religiosi?".
E il pagano Simmaco, amico di Pretestato
nel circolo romano dei Saturnalia,
nel chiedere la restituzione in
senato dell'altare della Vittoria che
l'imperatore Costanzo II
aveva rimosso nel 357, chiariva il senso della
religiosità
pagana di fronte a quella cristiana riconoscendo che "ognuno
ha
i suoi costumi, la sua religione", spiegando che "quasi
tutti gli dèi, greci
e romani e dei culti orientali, altro
non sono che rappresentazioni del
Sole", e ammonendo che a
comprendere "un segreto così grande non si può
giungere
per una sola via": e infine, altro non chiedeva se non
di
"ripristinare quella condizione della religione che ha
giovato a lungo allo
Stato".
Tale era il modo di
vedere dei pagani, che proprio non capivano perché si
volesse
cancellare l'antica religione e imporne d'autorità
un'altra.
LA TOLLERANZA RELIGIOSA
NELLA ROMA IMPERIALE
Mi si dirà: d'accordo
per gli intellettuali, ma il potere imperiale?
Ebbene, anche il
potere romano era rispettoso, anzi curioso delle
religioni
altrui:
del resto, ciò faceva parte non solo
del costume, ma anche di un progetto
politico generale, di
accaparramento del favore possibile di tutte le
divinità,
come avevano ben visto gli ambasciatori della Locride. E anche
qui
possiamo citarne alcune testimonianze.
Secondo il
racconto dello storico ebreo Flavio Giuseppe, già nel 64
a.C.,
Pompeo, espugnata Gerusalemme ed entrato nel tempio di
Jahvè, non solo si
astenne dal toccarne i tesori, ma
reintegrò i sacerdoti e ordinò riti
espiatori per la
violazione compiuta.
Cesare rinnovò l'antica amicizia del
tempo dei Maccabei, e Augusto non solo
consentì che gli
ebrei "seguissero i loro costumi rispettando la legge dei
loro
padri", ma concesse franchigie
per le rendite del
tempio.
Adriano meditò di innalzare un tempio a Cristo e
"dispose che in tutte le
città si facessero templi
senza immagini, detti appunto di Adriano".
E anche Severo
Alessandro, che venerava Abramo, Cristo e Orfeo, voleva
innalzare
templi senza immagini, ma ne fu dissuaso dai consiglieri che
lo
ammonirono che il risultato sarebbe stato che alla fine tutti
sarebbero
andati ai templi cristiani.
E, ancora, secondo il
cristiano Paolo Orosio, nel 244, a celebrare il primo
millennio
dalla fondazione di Roma fu un imperatore cristiano, Filippo
l'Arabo
che, a quanto pare senza troppo scandalo, avrebbe perfino
trascurato
i riti pagani tradizionali.
Dunque, anche
l'impero era incline a riconoscere libertà religiosa
per
tutti.
E anche dopo Costantino e i suoi successori, duri
persecutori dei pagani,
Giuliano l'Apostata operò
formalmente nel solco della tolleranza
costantiniana, quando
riaprì i templi pagani senza perciò chiudere le
chiese
cristiane.
Vero è tuttavia che, nel ridar vita
alla tradizione classica, egli impose
che nelle università
"tutti
coloro che richiedono di insegnare... abbiano convinzioni
non
contrastanti con quelle che professano" : non
si può, diceva, commentare
poeti che parlano di Giove, e
credere in Jahvè o in Cristo.
Chiedeva, insomma,
coerenza, lasciando ai professori cristiani la scelta
"di
andare nelle chiese dei galilei a esporre Matteo e Luca".
Moralmente
ineccepibile: anche se c'è da temere che proprio questo
suo
intervento possa essere servito ai cristiani come un
precedente da portare a
conseguenze estreme di intolleranza.
Mi
si dirà ancora: sì, d'accordo, non solo gli
intellettuali romani saranno
stati tolleranti, ma anche alcuni
imperatori che possiamo definire
intellettuali saranno stati
rispettosi, ma le persecuzioni imperiali ci sono
state, e sadiche,
e feroci.
Ahimè, sì: anche se la loro ferocia è
parte non di una persecuzione
religiosa, ma di una repressione
politica in forme comuni a tutta
l'antichità.
E sorvolo
qui non certo per reticenza:
sono cose che sanno tutti a memoria,
dato che, se non altro, fanno parte
della vulgata
storiografica.
Ma non si possono trascurare altri aspetti, meno
noti e certamente più veri.
Non si possono chiamare
persecuzioni religiose le prime repressioni
occasionali da parte
di Tiberio, Claudio e Nerone, rivolte contro ebrei e
cristiani che
si azzuffavano continuamente tra di loro (adsidue
tumultuantes):
del
resto, l'impero li conosceva assai poco, confondendo le due
sette,
ebraica pura ed ebraico-cristiana.
Le persecuzioni
ricorrenti verranno in seguito, nel generale inasprirsi
delle
tensioni sociali, di
fronte alle insurrezioni legate spesso al
nome cristiano, divenute
endemiche;
e soprattutto di fronte
all'incomprensibile rifiuto cristiano degli dèi
degli
altri:
un'offesa a tutti gli altri uomini, prima che una
ribellione al potere.
La persecuzione imperiale, feroce come tutti
i rapporti di pace e di guerra
allora (solo allora?), non è
religiosa, ma politica:
come quella già avvenuta in piccolo
contro i baccanali, proibiti nel 186
a.C. col Senatus consultum de
bacchanalibus, rivolto non certo contro Bacco,
ma contro una
licenziosità contraria al mos maiorum.
Non si
perseguitava la religione, bensì l'intolleranza cristiana
verso
tutte le altre religioni, il
rifiuto di far parte della
patria comune.
Erano i cristiani a non volere gli dèi degli
altri, non gli altri a non
volere il dio cristiano:
e di questa
intolleranza, ripeto, i cristiani si vantavano.
L'INTOLLERANZA
MONOTEISTICA DEI CRISTIANI
Cristiani remissivi e
pacifici? Un'altra appagante immaginazione storica!
Stavano
davvero così le cose? Anche qui è necessario
correggere la vulgata
cristiana.
Di fronte alla durezza delle
persecuzioni, la risposta cristiana fu dura:
in quegli anni i
cristiani non saranno da meno dei pagani, dapprima
nell'immaginare
la vendetta, poi nel praticarla.
Ma, anzitutto, che voleva poi
dire essere cristiano?
In quel secolo di conflitti si poteva a
lungo esitare tra le due visioni
della vita. Gli intellettuali
pagani potevano credere in un dio padre, e gli
intellettuali
cristiani potevano essere pagani per la loro formazione
culturale,
se non anche per i costumi: è nota l'angoscia di san
Gerolamo,
che avendo dichiarato in sogno a Dio: "Christianus
sum", si sente
rispondere: "Ciceronianus es, non es
christianus".
La stessa teologia cristiana si viene spesso
determinando di fronte alle
accuse dei pagani, come risposta alle
quali nascono i dogmi dei concilii
ecumenici di questa
età.
Comunque, le etichette né li distinguono
sicuramente, né dicono tutto su di
loro.
Sicché,
per mostrare l'animo dei cristiani citerò, come ho fatto per
i
pagani, testi precisi: anch'essi non marginali, ma una costante
del loro
atteggiamento.
Nel 202, Tertulliano, avendo
sperimentato le persecuzioni, sogna
sadicamente, nel libro
De spectaculis, la punizione dei persecutori nel
finale giudizio
di Dio:
"Che spettacolo immenso allora! Che cosa
ammirerò? Di che riderò? Dove
godrò, dove
esulterò vedendo tanti re, che si celebravano accolti in
cielo,
gemere con lo stesso Giove e i suoi testimoni
nelle
tenebre più profonde? E, come loro, i magistrati che
perseguitavano il
nome del Signore, struggersi su fiamme più
spietate di quelle con cui
avevano incrudelito sui cristiani,
insultandoli?".
Ammira, ride, gode, esulta, come nessun
intellettuale pagano si era mai
sognato di fare.
E, un
secolo dopo, Lattanzio, nel 316, gode anche lui, sadicamente
elencando
nei loro atroci particolari le Morti dei persecutori,
tutti finiti male per
l'Ira di Dio (sono titoli di suoi libri), e
commenta: "Quelli che avevano
insultato Dio giacciono, quelli
che avevano abbattuto il santo tempio
caddero con rovina maggiore,
e quelli che avevano scarnificato i giusti,
profusero le loro
anime malvagie sotto i colpi celesti e i meritati
tormenti".
Già,
i meritati tormenti: non è dunque l'idea in sé dei
tormenti che
disturba i cristiani, ma l'idea che siano applicati a
loro e non agli altri.
Ed Eusebio, vescovo di Nicomedia e
biografo di Costantino, gode nel
prefigurare la vendetta divina:
"Così possano perire i nemici di Cristo!".
E
Firmico Materno, nel De errore profanarum religionum, così
esorta gli
imperatori cristiani a perseguitare i pagani: "La
legge del sommo Dio esige
che la Vostra severità perseguiti
in ogni maniera il delitto di idolatria",
e sui modi della
persecuzione cita il Deuteronomio, che prescrive che se un
fratello
o un amico ti spinge all'idolatria, "lo accuserai, e la tua
mano
sia la prima a levarsi su di lui per ucciderlo... E anche
intere città, se
mai sono còlte in questo peccato, è
stabilito che periscano".
E il santo Gerolamo, autore
della vulgata del Nuovo testamento, intervenendo
nella polemica
sul culto delle pietre (le statue degli dèi) da parte
dei
pagani, e delle ossa (le reliquie dei martiri) da parte dei
cristiani, usava
nelle sue Lettere questo affettuoso ed elegante
linguaggio:
"Vigilanzio apre di nuovo la sua fetida bocca e
butta il suo schifosissimo
fiato contro le reliquie dei santi
martiri e contro di noi, che le
conserviamo"; perciò
piamente suggeriva che il vescovo "lo consegni alla
morte
della carne, affinché sia salvo lo spirito..., e che i medici
taglino
la lingua... a quel mostro..., pazzo furioso".
E
Prudenzio, nel suo Peristephanon, celebrando i martiri cristiani,
così fa
parlare la vergine Eulalia durante il processo:
"Eccomi, io sono nemica
della vostra religione demoniaca
(daemonicis inimica sacris), e ne calpesto
gli idoli sotto i miei
piedi"; e quando il pretore le chiede non di
rinunciare al
suo dio, ma di rispettare gli dèi degli altri, "freme e
sputa
negli occhi al tiranno, poi rovescia i simulacri e calpesta
col piede il
farro versato nei turiboli"; e poi, torturata,
"canta lietamente", finché la
sua anima vola
visibilmente al cielo in forma di colomba, lasciando
tutti
sbigottiti.
La sola certezza in questa leggenda dai
toni aspramente sadomasochistici è
il disprezzo cristiano
verso le altre religioni: e non risulta comunque che
poi qualche
pagano, dichiaratosi nemico del demoniaco culto cristiano, sia
stato
piamente perdonato.
E a Simmaco, che abbiamo sentito dichiarare l'
impossibilità di capire i
grandi misteri della vita per una
sola via, un altro santo, Ambrogio,
risponde superbamente: "Ciò
che voi ignorate, noi lo
abbiamo conosciuto dalla voce di Dio. E
ciò che voi cercate con le vostre
ipotesi (suspiciones),
noi lo abbiamo per certo dalla Sapienza di Dio e
dalla Verità".
È,
da parte di chi sente di avere ormai vinto, il rifiuto di ogni
dialogo e
l'imposizione del dogma;
e la sua conclusione è
un secco rifiuto: "Le vostre idee non si accordano
con le
nostre", cui seguirà, a differenza di quanto aveva fatto
Giuliano, la
chiusura dei templi e la fine di ogni culto
pagano.
La stessa intransigenza troviamo nella rilettura
ideale della storia di
Roma, sul merito o il demerito degli dèi
pagani nelle sue vicende.
Già Arnobio citava l'accusa
pagana ai cristiani che "da quando al mondo
cominciò a
esserci la gente cristiana, l'orbe terrestre era andato in
rovina";
e abbiamo sentito Simmaco invocare rispetto per la religione
che
"aveva giovato a lungo allo Stato" (i cristiani
rovesceranno questa accusa,
facendone anzi un cavallo di
battaglia).
Tra l'altro, ci fu allora un rifiorire della
storiografia pagana, con le
Storie di Ammiano Marcellino, amico di
Giuliano, e coi compendi di Eutropio
e Festo o della Historia
Augusta, destinati a creare una coscienza romana
nella nuova,
ignara, burocrazia bizantina: e vi si accompagnava un rifiorire
della
poesia in Claudiano, Rutilio Namaziano e altri, stanca e
imitatrice
quanto si vuole, ma non priva di una sua dignità
e di umani affetti.
Ebbene, proprio a quelle accuse, a
quell'accenno di Simmaco e a quella
storiografia sembra replicare
Agostino, quando nella Città di Dio addita in
tutta la
storia di Roma nient'altro che una serie ininterrotta di
disastri
dovuti alla impotenza dei suoi falsi dèi.
Affermazione,
a dir poco, paradossale, dopo il sacco di Roma del 409, a
opera
dei visigoti cristiani: ma per lui quella era stata una vittoria
sul
paganesimo.
Non pago di questo, Agostino volle affidare
la riscrittura cristiana di
tutta la storia romana al suo
discepolo Paolo Orosio, che premurosamente si
accinse al grave
compito: "Ai tuoi comandi ho obbedito, o beatissimo
padre,
Agostino. Mi avevi comandato di mostrare quanto negli
annali dei secoli
passati avessi potuto trovare di grave per le
guerre, di corrotto per le
malattie, di triste per la fame, di
terribile per i terremoti, di insolito
per le inondazioni, di
tremendo per le eruzioni vulcaniche, di feroce per le
cadute di
fulmini e della grandine, di miserabile per i parricidii e
le
scellerataggini".
Che sadico inventario dei mali del
mondo, per dimostrare che la trionfante
Roma pagana, creatrice del
più straordinario impero della storia, aveva
subìto
sconfitte peggiori di quelle che il desolato impero cristiano
stava
soffrendo nei nuovi, sventuratissimi tempi!
Che modo
idiota, bisogna pur dirlo, dato che era tale anche per la cultura
di
allora, di scrivere la storia come storia degli orrori! Un
modo
obnubilato dall'odio teologico, sconosciuto agli storici
pagani e a ogni
altra storiografia.
Leggendo questi testi,
non sembra davvero che il monoteismo, e tanto meno il
cristianesimo,
abbia reso migliori gli uomini.
I
CRISTIANISSIMI CONCILII ECUMENICI
Mentre gli
intellettuali cristiani manifestavano così la dubbia
superiorità
del loro dubbio monoteismo, si veniva
consolidando la difficile alleanza tra
potere imperiale e Chiesa
cristiana, quale intanto si definiva nei concilii
ecumenici.
Non
si possono leggere questi concilii come astratta
elaborazione
intellettuale, avulsa dalla realtà
circostante:
questi concilii sono incomprensibili senza gli
evidenti riferimenti al
contesto del tempo.
I primi
concilii ecumenici, cioè di tutta la cristianità (di
Nicea nel 325 e
Costantinopoli nel 381, cui seguì quello di
Edessa nel 431), che tennero
dietro a una ventina di concilii
locali dei secoli precedenti, furono
pesantemente condizionati
dalla supervisione imperiale.
Essi stabilirono anzitutto la
dottrina, ma anche, al suo riparo, la
posizione della Chiesa al di
sopra dei fedeli e, naturalmente, di tutti.
Ma è
soprattutto alla polemica pagana che essi intendono rispondere:
facendo
delle accuse un
vanto, e trasformandole orgogliosamente
in dogmi apertamente irrazionali.
Si sa che non solo i pagani,
ma anche molti cristiani, come Ario,
rifiutavano l'assurdità
di un uomo-dio e l'identità del Figlio col Padre,
necessaria
alla fondazione divina della Chiesa. Ecco allora a Nicea un
Simbolo
o Credo che poneva fine alla disputa approvando i dogmi sulla
Trinità
divina (qualcosa di simile già in Plotino), fatta di un Dio
Padre,
creatore del cielo e della terra; del Figlio unigenito,
"generato ma non
fatto", il quale, "incarnato di
Spirito Santo e da Maria Vergine, si è fatto
uomo"; e
infine dello Spirito Santo, del quale per allora non si disse
niente,
sicché più tardi a Costantinopoli si dovette aggiungere
che "procede
dal Padre" (senza peraltro definirlo
figlio, dato che Cristo è figlio
unico), ma dimenticando di
dire che procede anche dal Figlio, sì che si
dovrà
provvedervi più tardi dicendo "che procede dall'uno e
dall'altro"
(procedenti ab utroque), dirà san Tommaso
nel Pange lingua.
E l'aggiunta che lo Spirito "parla per
bocca della Chiesa" significava
consacrare un potere che, in
quanto disceso non da un uomo, ma da un "vero
dio e vero
uomo", è autocratico, anzi teocratico;
e
significava confermare la immunitas del vescovo di Roma, "sottratta
alla
possanza dei re, dei principi, dei popoli interi,
conoscendosi, in chi vi
siede, rappresentato Cristo Signor
nostro,
principe supremo ad ogni foro e ad ogni principato",
sancita dal concilio di
Roma di un anno prima.
Era il
preludio alla sua infallibilità: la Chiesa si poneva così
al di sopra
dei suoi stessi fedeli, come potere teocratico, al
pari di quello dell'
Impero.
Tutte queste teologiche
insensatezze, frutto di compromessi raggiunti
attraverso conflitti
sanguinosi, e imposte come dogmi, valsero comunque a
definire
quell'ambiguo sistema di convivenza conflittuale di due
poteri,
impero e papato, cioè Stato e Chiesa, incerto tra
cesaropapismo e teocrazia,
ignoto al mondo antico, e che segnò
tutto il Medioevo e pesa
ancor oggi sulla nostra vita
politica.
LA CONDANNA DELLA GIOIA DI
VIVERE
Se tali erano la durezza dei grandi
intellettuali cristiani e
l'intransigenza dogmatica della Chiesa
contro tutta la tradizione pagana,
occorre dire che altrettanto
duro fu anche l'orientamento dell'impero
ormai
cristianizzatosi.
Dalla iniziale tolleranza
costantiniana, pur solo formalmente dichiarata, si
passò
presto a una intolleranza peggiore di quella del potere
imperiale
pagano.
In questo processo c'è un aspetto
tanto vistoso quanto di solito trascurato:
che esso si rivolge
contro le manifestazioni non solo della vita culturale
ma anche, e
forse più, della vita ludica, fisica e intellettuale,
cioè
circensi e teatri.
Può sembrare un
paradosso, ma la polemica cristiana ha insistito in forme
maniacali
contro la vita ludica, dando fra l'altro luogo a
un'altra
inaccettabile vulgata storiografica, cioè che i
romani altro non facessero
che darsi a teatri e circensi, e che
nell'eccesso dei circensi fosse la
principale causa della caduta
dell'impero.
In realtà, la società politeistica
pagana aveva mostrato una totale coerenza
tra l'ideologia e
il
costume di vita: la vita ludica era mimesi gioiosa della vita
impegnata
delle armi e della cultura; teatro e circensi, ludi
dell'uno e dell'altro
genere (ludi utriusque generis),
intellettuale e fisico, erano atti
religiosi, per il culto degli
dèi e il piacere degli uomini (cultus deorum
et hominum
voluptatis causa).
Per questo, cosa lontanissima dalla cultura di
oggi, Varrone ne aveva
parlato nelle Antichità divine, e
ora Macrobio confermava, tra l'altro, che
"i culti si
celebrano quando si fanno ludi in
onore degli dèi".
Ebbene,
proprio per questo, non solo gran parte della polemica cristiana
si
rivolge contro i ludi, ma anche gli imperatori si accaniscono
contro di
essi: la cancellazione dei ludi è una
persecuzione
religiosa.
Già alcuni concilii locali
avevano fulminato pene gravissime contro quanti
"nei ludi dei
circhi, dei teatri e delle arene si scomponessero nel guidar
cocchi
e atteggiarsi da buffone".
A queste condanne della Chiesa si
aggiunsero in modo risolutivo, a fine
secolo, quelle
dell'impero:
gli imperatori Valentiniano, Arcadio, Teodosio
e Onorio, nel 392, 394 e
399, rovesciando la tolleranza
costantiniana e distorcendo la lezione morale
di Giuliano,
proibirono tutte le manifestazioni pagane, intellettuali
e
fisiche, nei templi, nei teatri e nei circhi.
E pochi anni
dopo, nel 409, l' imperatore d'Oriente, Teodosio II, ribadiva
la
condanna con le stesse e anche più precise parole: "Di
domenica, primo
giorno della settimana, e a Natale, Pasqua e
Quinquagesima, è proibito ogni
divertimento dei teatri e
dei circensi, tutte le menti dei cristiani e dei
fedeli siano
occupate nei culti di Dio".
Si badi, le menti: dalla
politeistica e pagana libertà di culto, si è
ormai
passati alla monoteistica e cristiana costrizione non solo
dei comportamenti
(i mores), ma anche delle menti (la
doctrina).
Si doveva essere cristiani per forza, pensare come
volevano la Chiesa e
l'impero.
Con queste, che ad Agostino
parevano "misericordiosissime leggi",
minaccianti
punizioni divine ed umane, si attuava una cosa nuova e
tremenda,
ignota al politeismo pagano:
si creava un dualismo
dei poteri, uno dei quali addetto al dominio
sulle
menti.
Paradossalmente, tutto ciò si
manifestava nella polemica contro la vita
ludica, mimesi gioiosa
della vita reale.
Eppure, anche su questo punto c'è una
vulgata storiografica, che "da queste
feste i cristiani si
tengono lontani per ragioni di ordine morale".
Che appagante
immaginazione storica, anche questa!
I pagani empi e tutti dediti
ai teatri e al circo, i cristiani pii e
riservati in chiesa!
Fatto
sta che le proibizioni imperiali la smentiscono:
non si proibisce
se non ciò che si suole fare, e in generale la prima
lettura
che si dovrebbe fare delle leggi nella storia, è che ci
informano
sul contrario di quello che prescrivono o
proibiscono:
in particolare, queste leggi cento volte
ripetute contro teatri e circensi
ci mostrano come esse fossero
normalmente trasgredite dagli stessi
cristiani.
Del resto, sono
più volte gli stessi padri della Chiesa a mostrarci
i
cristiani impazzare e
sputtaneggiare (bacchari et moechari)
nei teatri e nei circhi.
E Agostino ci narra che, dopo le grandi
persecuzioni durante le quali molti
cristiani erano ricaduti,
lapsi, nel paganesimo, molti che sarebbero voluti
tornare
cristiani "rimpiangevano queste pericolosissime e
tuttavia
antichissime voluttà".
Che fare,
allora? Semplice: "Parve opportuno celebrare altri giorni
festivi
in onore dei santi e dei martiri, non con tale sacrilegio
quantunque con
simile lusso".
Insomma, si cambiò il
nome delle divinità cui dedicare le "voluttà":
ma
così si perse l'antica coerenza tra ideologia e vita, si
tolse ai ludi
il loro valore religioso di mimesi della vita seria,
che era l 'altissima
virtù del paganesimo.
D'ora in poi,
tra ludi e religione, tra svaghi e morale si instaura
una
contraddizione insanabile, e ne risulterà un
inguaribile spirito di
ipocrisia, un divaricarsi tra predica e
pratica, che accompagnerà tutta la
civiltà
cristiana.
Più tardi, negli anni intorno alla caduta
dell'impero d'Occidente, Salviano,
vescovo di Marsiglia, tornerà
su questo tema definendo, con amaro gioco di
parole, "i
pubblici ludi ludibrio della nostra vita"; e, dando ai
circensi
la colpa della decadenza di Roma (confondeva, semmai, la
causa con l'
effetto), aggiungerà:
"Tutto il mondo
romano è misero e lussurioso. Chi, domando, è povero
e
scherza; chi, aspettando la prigionia, pensa al circo; chi teme
la morte e
ride? Noi anche nel timore della prigionia giochiamo e,
posti nel timore
della morte, ridiamo. Potresti credere che tutto
il popolo romano si sia
saturato di erbe velenose: muore e
ride".
Questa strana idea cristiana di una Roma che muore
ridendo è un'altra
vulgata storiografica,
seriosamente
ripresa anche da tanta moderna storiografia, a cominciare dal
grande
Gregorovius. Eppure, come non vedere che nei ludi, mimesi
gioiosa
della virtus romana, si esprimeva la nostalgia dell'antica
grandezza?
L' ODIO TEOLOGICO E I SUOI
GUASTI
La polemica infuria ancora contro questa
Roma prostrata.
Agostino, vissuto nel momento in cui Teodosio
celebrava i fasti della sua
intolleranza, esultava perché
l'imperatore "dall'inizio del suo stesso
impero non cessò
di aiutare la Chiesa travagliata per mezzo delle sue
giustissime e
misericordiosissime leggi contro gli empi":
dove gli
avversari sono tali perché empi, e diventa misericordia
il
minacciare pene perfino alle
coscienze.
Ma, ad additare
l'incoerenza delle accuse cristiane, valga la polemica di
Agostino
sulla pena di morte.
I pagani, diceva, sogliono uccidere, mentre
"i cristiani non uccidono
nessuno".
Peccato che
subito dopo aggiungeva una tremenda riserva, che ricorda le
minacce
di Teodosio e
risuona tanto più torva dopo le tremende
stragi gotiche di Roma, che lui e i
suoi cristiani avevano
rimpianto che non fossero state totali, una shoah,
contro i
pagani: "non uccidono nessuno, eccetto quelli che Dio comanda
di
uccidere" (exceptis his, quos Deus occidi iubet).
E, a
scanso di equivoci, ripeteva e precisava: "Eccetto dunque quelli
che o
una legge giusta
generaliter o la stessa fonte della
giustizia, Dio, specialiter comanda di
uccidere...".
E
che altro è questo presunto comando di Dio, se non l' arbitrio
di quelli
che si autoproclamano suoi rappresentanti in
terra?
Questo sadismo teologico, che uccide negando di
uccidere, è cosa
esclusivamente cristiana:
si ricordi il
decreto romano, citato da Plinio il vecchio, ne homo
immolaretur.
Ma
in Agostino c'è anche dell'altro.
Quante volte si è
scritto che il cristianesimo ha abolito la schiavitù?
Ebbene,
eccolo ancora: "Si comprende che la schiavitù è
imposta a buon
diritto al peccatore...
La prima causa della
schiavitù è il peccato".
E il peccato, secondo
lui e comunque da Teodosio in poi, è anzitutto il
credere
in un dio diverso da quello predicato dal beatissimo apostolo
Pietro,
e imposto a tutti dall'imperatore.
E pensare che già Seneca
aveva scritto, e Macrobio ripetuto:
"Ma perché tanta
ingiustificata avversione per gli schiavi? Come se non
fossero
uguali a te... Sono schiavi, anzi uomini. Sono schiavi, anzi
compagni
di servitù, se rifletti che la sorte esercita sugli uni e
sugli
altri il suo potere in ugual misura".
Agostino è
stato uno dei grandi padri della Chiesa, che da lui ha appreso
per
secoli le ragioni della sua fede e dei suoi comportamenti, anche
su
queste due questioni di principio, quali la pena di morte e la
schiavitù.
E se, a riprova, mi è qui concesso un
diretto riferimento a quell'oggi, che
ho cercato di dimostrare
nato in quel IV secolo, ecco il nuovo Catechismo
della Chiesa
cattolica, dell'11 ottobre 1992, sancire il diritto e il dovere
della
legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate
alla
gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di
morte:
una sentenza
pubblicata nel fervore delle iniziative mondiali per abolirla.
E
sarebbe poco, se poi non si intendesse giustificare questa tesi
spiegando
che "nei tempi passati, da parte delle autorità
legittime si è fatto
comunemente ricorso a pratiche crudeli
per salvaguardare la legge e l'
ordine, spesso senza protesta dei
pastori della Chiesa, i quali nei loro
propri tribunali hanno essi
stessi adottato le prescrizioni del diritto
romano sulla
tortura".
Come dire che la colpa è del diritto romano:
eppure la Chiesa, mentre lo
assumeva tranquillamente per questa
parte omicida, ne stava cancellando ogni
traccia nella tradizione
culturale e nella sua mimesi ludica.
Ma il paragrafo del
Catechismo continua: "Accanto a tali fatti deplorevoli,
però,
la Chiesa ha sempre insegnato il dovere della clemenza e
della
misericordia: ha vietato al clero di versare il
sangue": certo, lasciandolo
materialmente versare per secoli,
su sua indicazione e sotto la sua
supervisione, al braccio
secolare dello Stato, e addirittura santificandolo
come auto da
fé, atto di fede.
E a proposito del diritto romano,
come non ricordare che il cristianesimo
dove non ha potuto
distruggere tutto ciò che era pagano, se lo
è
accaparrato?
Giustiniano, questo imperatore che,
secondo Procopio, era "praticamente
analfabeta, cosa che non
si era mai vista nell'impero romano..., e che nella
lingua,
nell'aspetto esterno e nella mentalità si
comportava come
un barbaro", ordinata la raccolta delle leggi romane (c'è
forse
qualcosa di più pagano?) la intitolerà al nome di
Cristo:
Prooemium de Confirmatione Institutionum, In nomine Domini
nostri Jesu
Christi...".
Che impudente falsificazione
storica!
Il cristianesimo o cancella o si accaparra quanto di
vitale c'è nel
paganesimo: accoglie l'eredità delle
sue leggi, proibisce o santifica i suoi
ludi, trasforma i templi
in chiese, come in "Santa Maria sopra Minerva",
sostituisce
gli dèi con angeli e santi, chiama il papa Pontefice
Massimo,
occupa la sua sede, fuori della quale e senza la quale il
vescovo di Roma
non sarebbe papa.
Certo, la società
imperiale romana, che già ai tempi di Livio "soffriva
per
la sua stessa grandezza", era ormai giunta al culmine di
una gloriosa e
tremenda parabola storica.
Eppure, essa ha
conservato agli occhi della storia un suo fascino, non solo
per la
sua grandezza, ma anche per una virtù che la fece apparir
bella agli
uomini del Rinascimento, e che le successive
società
cristiane hanno per sempre perduta:
la coerenza tra l'ideologia e
il costume di vita, tra la doctrina e i mores.
PER
UN NUOVO POLITEISMO LAICO
Concederò
volentieri che questo mia critica della vulgata storiografica non
è
tutta la storia né del paganesimo né del
cristianesimo.
È tuttavia un aspetto non confutabile della
loro storia, che ho documentato
con atti e parole non occasionali
ma coerenti dei loro protagonisti: se non
lo si assume, non si
capisce niente.
So bene, d'altra parte, che questo cristianesimo
intollerante e ipocrita ha
tuttavia rappresentato un momento alto
della storia umana, vivendo al suo
interno aspre contraddizioni
(il bene e il male si annidano dappertutto):
so che il suo "dare
a Dio quel che è di Dio" può aver rappresentato
una
rivendicazione di libertà delle coscienze; so che in
suo nome, accanto alle
infamie del potere, ci sono le opere oneste
e gli affetti profondi di tante
persone che si sono proclamate
cristiane.
Tuttavia, è pur vero che esso (soprattutto in
ciò che fu in quel
determinante secolo IV) non è in
grado di evocare alcuna coerente
immaginazione storica di bellezza
o di grandiosità, come la evocano l'antica
Grecia e
l'antica Roma.
Certo è che il cristianesimo non ha
migliorato il mondo, non ha reso gli
uomini migliori e, per quel
tanto che può avere avuto di intimamente
sovvertitore,
diciamo pure di rivoluzionario, è stato, come sempre
nella
storia, una rivoluzione accaparrata da un nuovo potere.
È
così che la storia fa sempre un passo avanti e uno indietro:
un passo
avanti nello sviluppo, uno indietro nelle sue
contraddizioni.
Vorrei concludere auspicando quello che -
riecheggiando il nouveau
christianisme socialista di Saint-Simon
di due secoli fa - potrei chiamare
un nuovo paganesimo, o un nuovo
politeismo laico: cioè un pluralismo in cui,
credendo
ognuno quello che vuole, come per Costantino e Simmaco,
nessuno
pretenda di imporre all'altro, con la forza del potere, la
propria parola
come parola di Dio. Che è la vera, anzi la
sola "bestemmia contro lo
Spirito": il solo spirito che
positivamente conosciamo, quello dell'uomo.
La lotta contro
questa imposizione dura da un millennio e mezzo: ma è
stata,
appunto, una lotta. La storia d'Europa è storia non
tanto del cristianesimo,
quanto della perenne lotta per la
liberazione degli uomini dall'imposizione
del cristianesimo come
potere "teodosiano" sulle coscienze.
Mario Alighiero
Manacorda.
- - - - - - - - - - - - - - - - -
- - - - -
Fine - l'articolo sopra riprodotto e'completo.
Si
trova anche in :
http://www.letterainternazionale.it/articoli/manacorda71.htm,
Si
consiglia una occhiata a tutto l'archivio, molto interessante.
-
- - - - - - - - - - - - - - - - - - -
Claudio
Simeoni
Meccanico
Apprendista Stregone
Guardiano
dell'Anticristo
P.le Parmesan, 8
30175 Marghera Venezia
tel. 041933185
e-mail: claudiosimeoni@libero.it